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Guglielmo Ragozzino
Dalla parte dell’albero
1 Luglio 2011
Recensioni e segnalazioni
La recensione di un libro di Anna Pacilli, Anna Pizzo e Pierluigi Sullo che ci fa comprendere che cosa abbiamo perduto con la chiusura di Carta. Le Monde Diplomatique - il manifesto, anno XVIII, n. 4

Cosa abbiamo perduto con la chiusura di Carta? Il libro che Anna Pizzo e Gigi Sullo hanno curato insieme ad Anna Pacilli, ne dà un’idea.

Nel volume, dal titolo esplosivo, «Calendario della fine del mondo. Date previsioni e analisi sull’esaurimento delle risorse del pianeta» sono raccolti infatti brevi saggi di una ventina di autori, tutti italiani tranne Serge Latouche; e tutti, Latouche compreso, molto rappresentativi di quello che il mensile-settimanale sapeva far scrivere. Gli autori, come Giorgio Nebbia, Guido Viale, Gianni Tamino tra i tanti altri, danno quasi sempre il meglio di sé e il meglio consiste nello scrivere con chiarezza e spiegare gli aspetti di una linea ambientale anticapitalistica: difesa dei beni comuni, filosofia della decrescita, impegno per mitigare il riscaldamento globale, attenzione all’impronta umana nella natura. Qualche volta però fanno di più, propongono aspetti di una ricerca che ha fatto qualche passo avanti. E questo è il bello della sinistra – qualche volta.

Latouche rilegge il «Collasso» di Jared Diamond senza prenderlo del tutto sul serio. Le cause delle catastrofi sono spesso diverse dall’aumento di popolazione e dalle carestie dovute al clima, non entrano sempre nella categoria dei fenomeni ineluttabili, anzi non si trovano quasi mai in cause che trascendono gli errori umani. E attacca: «...Ricercare la crescita a tutti i costi vuol dire prima di tutto non andare troppo per il sottile sui mezzi per ottenerla... Che si tratti di Chernobyl, della mucca pazza o dello scandalo del sangue contaminato...» Ci si trova di fronte a «una quantità incredibile... di imbrogli, abusi e raggiri dovuti nell’essenziale a tre fattori: la vanità, l’avidità e la volontà di potenza». Ecco quindi il triangolo micidiale: crescita, ingordigia, catastrofe. E Latouche scriveva prima del disastro di Fukushima.

Credevamo di avere ormai imparato tutto da Riccardo Petrella sull’acqua, e che la questione fosse semplice, infine: andare al referendum e vincerlo. Invece nel suo intervento Petrella va ancora avanti. Prima di tutto suggerisce un’equivalenza tra povertà e sete, tra ricchezza e spreco di acqua. «L’acqua rivela che il diritto alla vita per tutti non costituisce una priorità politica ed economica dei gruppi sociali dominanti... Non ci si può, quindi, attendere da loro l’assunzione di decisioni e di misure per modificare il corso attuale della storia». Ci dicono che l’acqua è una risorsa in via di esaurimento e che per questo va pagata applicando i due principi del «paghi chi consuma» e «paghi chi inquina». Petrella spiega che non è così. L’acqua è sempre nella stessa quantità, da milioni di anni e sarà altrettanta per altri milioni. Solo che l’acqua «buona» è prelevata in eccesso e inquinata. Secondo i padroni dell’acqua, per averne abbastanza, si devono sopportare costi elevati e quindi ci vogliono prezzi elevati per ripagare i costi a chi li ha sopportati, con un qualche giusto profitto. Petrella replica che il ragionamento non tiene. Non si tratta di costi, ma d’«investimenti» che le popolazioni fanno per poter fruire del bene comune per eccellenza, l’acqua. «Quel che in una logica capitalista di mercato è considerato un costo per il privato... in una logica di economia pubblica e dei diritti umani e sociali alla vita e del vivere insieme è invece considerato un investimento comune, per il benessere comune».

Carta sapeva affrontare temi attuali e il volume segue quella falsariga. Tra i tanti discorsi pratici attraversati dal «Calendario» eccone uno, l’uranio. Mario Agostinelli fornisce numeri poco abituali. Per le centrali nucleari occorre un quantitativo tot di uranio arricchito (11.521 tonnellate). Quello che si scava e setaccia e tratta ogni anno non basta per le centrali esistenti. E allora come tornano i conti? Per ora le grandi potenze atomiche hanno smantellato le loro riserve di bombe, vendendo sul mercato l’uranio in esse contenuto. Ma anche l’arsenale atomico spendibile – quello che gli stati maggiori considerano non indispensabile per i loro piani di distruzione di Terra e quindi alienabile – sta per finire. Il prezzo dell’uranio sale, sale. Ricavare uranio dal minerale di partenza costerà sempre di più – fino all’esaurimento tra qualche decennio – sia in termini di dollari che di energia utilizzata che di inquinamento; un inquinamento a monte, molto prima che la produzione di energia elettrica dal reattore cominci. E poi c’è il problema dell’uranio arricchito ma non abbastanza; in altre parole l’uranio impoverito. Cosa farne, dove riporlo? Se lo si spara un po’ in giro, assicurano gli stessi stati maggiori di prima, gli interventi umanitari riescono meglio e poi ci penseranno altri a risolvere i problemi delle scorie.

Propriamente della fine del mondo promessa, si tratta in due articoli: ecco Daniele Barbieri che rilegge le fini del mondo prospettate nella fantascienza e Marinella Correggia che fa parlare un albero, l’ultimo rimasto. L’antologia di disastri finali suggerita da Barbieri è naturalmente un breviario di orrori, vergogne e paure nella vita attuale, nel giorno dopo giorno del genere umano. L’albero che parla è davvero l’ultima sentinella: «Mi presento. Sono l’ultimo pezzo di Amazzonia rimasto vivo. Vivo. Qualcuno deve pure aspettare, essere quello che chiude la porta dietro il nulla...». E così via dicendo.

A DKm0, e al suo sito www.democraziakmzero.org, andrà per intero il ricavato del libro. Corredato da grafici e mappe, 272 pagine, in libreria costa 19,90 euro. Ma si può averlo anche a casa senza costi di spedizione, ordinandolo all’indirizzo zero.libri@gmail.com

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