Ci sarebbe di che rallegrarsi, all'annuncio che il governo ha deciso di stanziare un paio di miliardi da spendere per una serie di progetti urbani, deviando per una volta dai consueti foraggiamenti alle banche. Un lampo di keynesismo che illumina il fosco panorama monetario e che lascia intravvedere un po' di sano e concreto strutturalismo economico. Se non fosse che il modello individuato è desolatamente il solito, sviluppo edilizio e poco più: tondini e calcestruzzo, betoniere a pieno regime, ruspe e sbancamenti, travi e pilastri. Siamo sicuri che è così che si rilancia un'economia in crisi, siamo sicuri che il ciclo del mattone sia la molla che slancia crescita e occupazione e che, soprattutto, sia utile allo sviluppo metropolitano delle nostre anemiche città?
La domanda è insomma la seguente. Si può continuare a ritenere che la spesa pubblica d'investimento debba concentrarsi sul solo sostegno all'industria edilizia, a riproposizione dell'eterno modulo invasivo che consuma territorio, deposita immobili senza qualità e spesso neanche riqualifica l'assetto urbanistico? Napoli, Genova, Roma, Bologna e le altre città che beneficeranno di queste risorse hanno davvero bisogno di nuove forse inutili edificazioni, seppur mimetizzate da progetti di risanamento e/o di pubblica necessità?
Con il tempo ci si è accorti che questo genere di progettazioni urbane, tranne alcune (poche) eccezioni, finiscono per rivelarsi perniciose e addirittura devastanti. Non solo perché, essendo bisognevoli di cofinanziamenti privati, si portano dietro generosissime concessioni affaristiche e speculative, che sovraccaricano e a volte vanificano gli obiettivi di partenza. Ma soprattutto perché corrispondono a una strategia di sviluppo ormai del tutto esausta, obsoleta nel metodo e arcaica negli obiettivi, una prospettiva che sempre più rischia di disattendere le intenzioni originarie, e in alcuni casi perfino tradirle.
Questo nostro paese non ce la fa più a sostenere processi di sfruttamento territoriale, grandi opere, infrastrutturazioni invasive e deturpanti, soffocanti plateatici cementizi. E' tempo di smetterla con queste scelte distruttive, che da decenni stressano coste e città, monti e campagne, compromettendo equilibri naturali e sociali. Le proposte di Monti e Passera sono solo vecchiume politico, immobiliarismo sfiorito al servizio di rendite e profitti. Non rilanceranno un bel niente e ci lasceranno ancor più appesantiti e incrostati.
Al contrario, ci sarebbe bisogno di un keynesismo leggero e intelligente, multiforme e incoraggiante, che sfugga alla rituale dialettica pubblico/privato, favorisca la micro-impresa, la cooperazione, il no-profit e s'incentri sull'autogoverno di processi produttivi né pubblici né privati. Una prospettiva d'intervento rivolta all'unica grande opera di cui l'Italia ha bisogno: la propria manutenzione, la propria valorizzazione. E' nel risanamento urbano e territoriale che è necessario investire per creare nuove economie e nuova occupazione, salvaguardando l'ambiente fino a trasformarlo in risorsa strategica, riconvertendo l'esistente dismesso per offrire servizi, e lasciando che a gestire tutto ciò siano nuove forme collettive di ricerca e manifattura.
C'è da riavviare un grande programma di risanamento della terra, lasciandola respirare e (ri)utilizzandola per la produzione agricola, per le coltivazioni di pregio, quelle stesse per cui il mondo apprezza il nostro stile alimentare, e per la loro trasformazione virtuosa, in uno sforzo d'integrazione agro-urbana.
I soldi pubblici vanno spesi per rigenerare il nostro immenso patrimonio artistico e culturale, strappandolo dall'immiserimento in cui le politiche di tutti i governi l'hanno condannato, lasciandolo deperire saccheggiare. Da questa inestinguibile miniera si può estrarre tutto il necessario per sviluppare lavoro e ricchezza, energia e salute, piacere e conoscenza. Si tratta di mettere a valore la nostra storia millenaria, l'archeologia, le arti figurative, l'architettura, l'espressività, la contemporaneità; ma anche la grazia e il garbo del paesaggio, il nostro straordinario ecosistema, il magnifico mare, le splendide montagne.
Quando si ragiona di queste cose, tornano alla mente le parole di Robert Kennedy a proposito di modelli economici. Egli spiegava che tra i coefficienti che determinano il calcolo del Pil mancano proprio quelli che riguardano il benessere degli uomini e delle donne. Che è un po' la riproposizione dell'odierna protesta contro la dittatura finanziaria, laddove si sostiene che una persona è più importante di una banca. Una vigna di malvasia puntinata è più importante di un edificio abitativo, un reperto archeologico è più importante di un centro commerciale. Monti e Passera non lo sanno (o non vogliono saperlo), ma il guaio è che questa loro ignoranza per noi diventa una condanna.