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Matteo Renzi l’ha detto apertamente, anzi l’ha ripetuto in diverse occasioni: la miglior legge elettorale sarebbe quella a doppio turno con ballottaggio finale fra i due candidati presidenti meglio piazzati, a meno che qualcuno non abbia ottenuto la maggioranza al primo turno. Si voterebbe, dunque, per scegliere direttamente il primo ministro. Il modello, noto e applicato più volte, è quello dell’elezione del sindaco nei comuni con più di 15.000 residenti. Di più: la lista o il gruppo di liste collegate al sindaco eletto si prendono il 60% dei seggi col 40% dei voti (a meno che il 60 non l’abbiano già ottenuto al primo colpo).
Aggiungiamo le impressionanti regole sui poteri che permettono a sindaci e giunte di surclassare qualsiasi richiesta “democratica” dei Consigli comunali (si intende, delle minoranze) per render giustizia alle rare proteste, al momento di quelle novità, di chi aveva vissuto l’esperienza delle vicende consiliari quando sindaco, giunta, consiglieri dovevano confrontarsi rispettando almeno due principi basilari: l’obbligo, per sindaco e giunta, di “portare” nel Consiglio tutte le “pratiche”, relative sia alla risoluzione dei più complessi problemi urbani sia alla risposta a domande di minimo rilievo locale, di metterle in discussione assicurando a tutti la pari dignità di funzione con la votazione. E sopra il Comune, indipendente in teoria, sorvegliava come un cerbero il prefetto a capo di una autoritaria commissione provinciale di controllo, messa lì apposta per rendere grama la vita democratica delle amministrazioni pubbliche d’ogni colore, per principio, ma nei fatti con prevalenza al 100% del colore rosso.
Vecchi quadri ammuffiti, questi, ignoti alle nuove generazioni ma dimenticati persino da protagonisti politici d’allora. Per noi, invece, una chiarezza fissata come un palo nella memoria, conficcata ben dentro al durame del ricordo.
Tutti, poi, erano stati eletti, mentre oggi il sindaco è una specie di principe che nomina gli assessori cortigiani pescando dove vuole, anche fuori della logica elettorale principalmente per i ruoli più alti: ricorrendo al topos del “grande tecnico” da reperire sul mercato più ampio e ben frequentato delle professioni (credono, anche in tempi di mafia legalizzata?) e quasi sempre sconosciuto al popolo elettore. Del resto, Renzi è stato eletto? No, è (era) un giovane borghigiano fiorentino di Rignano sull' Arno nominato da un presidente della repubblica detto, guarda caso, re Giorgio. A sua volta il rignanese s’è procacciato i ministri, i suoi ministri, forse mai come questa volta esonerati da attendibili apprezzamenti magari coram populo.
Ma torniamo a sindaci, giunte e Consigli, materia che sentiamo più nostra rispetto a certa estraneità dei giochi di sfere ministeriali e governative, che girano, cozzano, si respingono e si attraggono; benché una città come Milano, se è per questo, non sempre perda il confronto. Sono passati mesi dalle elezioni del nuovo sindaco Giuseppe Sala e nulla è accaduto dal punto di vista di un sano svolgimento delle relazioni politiche e amministrative (ovvia dimostrazione…). L’enorme problema del riutilizzo degli scali ferroviari dismessi richiama l’interessamento in diversi ambienti culturali; ma non in Consiglio comunale che sembra in disarmo (senza essersi armato), proprio come una vecchio vagone delle ferrovie. Parla qualche assessore qua e là, pareri personali e superficiali[i].
Finalmente, sotto la cappa di silenzio istituzionale in una città sventrata da rumorosi lavori (vecchia amministrazione) per l’ultima linea metropolitana[ii], il teleriscaldamento, la sostituzione di tubature del gas, nuovi (inconcepibili!) parcheggi sotterranei nel cuore della città, si è svegliato l’unico consigliere eletto con l’unica lista di opposizione da sinistra “Milano in Comune”[iii], Basiglio Rizzo, presidente del Consiglio comunale prima delle elezioni. Ha dichiarato, protestando signorilmente, che niente passa attraverso il Consiglio; sindaco o giunta decidono deliberano decretano fuor d’ogni dovere di instaurare la discussione nell’assemblea, o, per i provvedimenti di bassa ordinarietà, di informarla. «In questo modo fanno passare di tutto», scriveva sessantacinque anni fa il viennese Heimito von Doderer[iv]. Si rivolga, l’ingenuo, all’albo pretorio. Così leggerà almeno un elenco completo, si suppone.
Sala, che prima delle elezioni si era autodefinito (alla pari col rivale del centrodestra Parisi) un manager, si è mosso e si muove ben al di là dei presumibili compiti coerenti al titolo qualificante, giacché la versione italiana direbbe solo dirigente. Un comportamento da capo indiscusso, il suo: disinvoltura e spregiudicatezza siano il mio motto, sfruttamento della fama di eroe di Expo sia il mio daffare. Così l’abbiamo visto sbrigativamente noncurante di certi brutti inceppi nella gestione personale del potere. Notati e descritti da rari giornalisti non ossequienti[v]. Ora, passate e ripassate di un buon cancellino hanno ripulito a fondo la lavagna con le «note», come quelle che la maestra o il maestro segnavano per le mancanze più gravi degli scolari. Noi però conserviamo i ritagli degli articoli di quei giornalisti. Allora, promemoria minimo:
assegnazione senza gara a Eataly (alias Farinetti sostenitore di Renzi) dell’intera ristorazione nell’Expo; triplice dimenticanza nelle dichiarazioni obbligatorie: una casa in Svizzera, due società (in Italia e in Romania); disinteresse e supponente distacco di fronte agli allarmi e inchieste della magistratura milanese su corruzione negli affari all’Expo e resistibile larga partecipazione mafiosa; dolente svarione nell’affrettata prima nomina del segretario generale del Comune, la prescelta era stata rinviata a giudizio per turbativa d’asta a Como (ricordate lo scandalo delle famose paratie - muraglie di cemento - davanti al lungolago?).
Permane infine il mistero sulla sorte delle aree Expo. Chi ne ha vantato il successo grazie soprattutto a sé medesimo, non potrà defilarsi di faccia sia all’eredità negativa che comprende l’abolizione di un’area agricola acquistata peraltro a prezzo eccessivo e i debiti bancari di Comune e Regione, sia alla prospettiva del riutilizzo che esigerà un mucchio di investimenti pubblici (forse irragionevoli), intanto che ammetterebbe una gigantesca speculazione edilizia a Città Studi se una delle destinazioni fosse il trasferimento dell’università.
[i] Cfr. il mio articolo Meno “rito ambrosiano” ma nuovi ritualismi, eddyburg 21 settembre 2016.
[ii] La numero 4, successiva alla 5 già in funzione.
[iii] La lista “Sinistra X Milano”, sinistra del cavolo, embedded nel gruppone pro Giuseppe Sala.
[iv] Trascrivo il passo che introduce la sconfortante locuzione: «…solenni invenzioni di gente interessata, di politici di professione, di generali, di palloni gonfiati, di storici, o esalazioni di persone alle quali il linguaggio dei giornali guazza nel cervello, come lo sciacquone nel vaso del w. c.», in Die Strudlhofstiege oder Melzer und die Tiefe der Jahre, Biederstein, Monaco 1951; edizione italiana di un capolavoro della letteratura austro-tedesca: La scalinata, traduzione di Ervinio Pocar, Einaudi, Torino 1965, p. 375.
[v] Come Gianni Barbacetto, autore di un’inchiesta su Milano e Sala, Il fatto quotidiano, alcuni numeri dell’estate 2016.