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Costa Smeralda Connection
25 Settembre 2011
Sardegna
Cronache della valorizzazione in Costa Smeralda, forse discutibile negli anni ’60, decisamente idiota riproposta oggi. Due contributi di Sandro Roggio e Giorgio Todde da La Nuova Sardegna, 25 settembre 2011

Così nacque la madre di un modello turistico fondato sul cemento

di Sandro Roggio

Costa Smeralda compie mezzo secolo: quest'anno, se diamo valore al patto firmato il 29 settembre 1961 da Aga Khan, Duncan Miller della Banca Mondiale, Guiness, Podbielski, Mentasti e Fumagalli. Con il documento manoscritto si impegnano a urbanizzare i terreni già acquistati “tra Olbia e Punta Battistoni” dividendo i costi in proporzione e decidendo le modalità per procedere.

L'estate appena trascorsa è l'ultima per la Sardegna senza Costa Smeralda che quell'impegno rende possibile.

Nel 1962 si formalizzano gli atti e si completa un lotto di lavori a Baia Sardinia, ma è ancora difficile farsi un'idea della trasformazione che subirà il litorale granitico di Arzachena (2.468 abitanti in paese, più di mille nelle campagne). Gli obiettivi dell'impresa – un esperimento di globalizzazione anzitempo – si capiranno nel giro di un paio di anni quando cadranno i pregiudizi sulla abitabilità delle rive dell'isola: compresi quelli del competente TCI che, una decina di anni addietro, in un servizio sull'isola nella sua rivista, concedeva un rapido accenno al mare “che batte minaccioso sulle coste inospitali”.

Il Consorzio vuole eccellere nell'accoglienza: servono alberghi come Cala di Volpe e Pitrizza aperti al pubblico tra il 1963 e il 1964 quando si inaugura con una rutilante regata la banchina di Porto Cervo. Si conta sull'alto rango degli ospiti: esponenti delle grandi casate nobiliari d'Europa, da Margaret d'Inghilterra e consorte, ai coniugi di Liegi, ad Alessandra di Kent e quelli del jet-set internazionale che costringono i paparazzi romani a lasciare gli appostamenti nei ritrovi della “Dolce vita”.

La pubblicità ha accelerato la scoperta della Sardegna e sollecitato l'attenzione degli speculatori. Comprare in Sardegna è conveniente, come sanno Karim e tanti altri, e come racconta tempestivamente Giuseppe Grazzini su «Epoca». Nonostante la domanda alta e se ben guidati "è tuttora possibile acquistare convenientemente terreni sulla costa sarda. A Sud, presso Cagliari, la zona di Santa Margherita offre possibilità di acquisto dalle 2000 alle 3000 lire al metro quadrato. A Quartu si trova ancora qualche appezzamento a 1500 lire e a Capo Teulada a 1000. A Bosa da 1500 e 2000. Ad Alghero e Porto Conte, con difficoltà, da 4000 a 5000. Da Sassari a Castelsardo tra 1200 e 1500. Poi c'è la Gallura meno nota. Da Olbia verso Sud la costa è dirupata: le comunicazioni sono difficili, ma qualche tratto di spiaggia c'è, e bellissimo: da 500 a 1000 lire...". E' il 1962 e quest'articolo ridimensiona il racconto sul principe che incontra la Sardegna per caso “e se ne innamora”. Il mercato delle vacanze è una opportunità ben nota agli investitori ai quali fa piacere passare per benefattori, un po' per vanità ma anche per convenienza.

La classe politica locale si limita ad agevolare il processo di trasformazione dei litorali rendendoli accessibili anche con risorse pubbliche. Si sa come batte il cuore dei sardi quando i continentali gli dicono che la loro terra è bellissima; e non sorprende che il benefattore Karim sia accolto, per il suo amore per le coste galluresi, dal presidente della Regione Corrias con tutti gli onori.

La condizione in cui versa la Sardegna di quegli anni offre il pretesto per accogliere qualunque progetto che possa alleviarne lo stato di povertà. Un atteggiamento che si diffonde e che nei decenni successivi si riproporrà continuamente, con più intensità ad ogni crisi, assumendo i connotati tipici della subalternità o della complicità con gli affari. Poco riguardo, invece, per i piccoli albergatori e ristoratori, che faticano a entrare nel mercato. Si punta sui poli di sviluppo turistico ( e per l'industria chimica), con il vantaggio di un ritorno occupazionale nell'edilizia molto fruttuoso per la politica con la vista corta.

Negli anni Settanta le parti più pregiate del territorio – il paesaggio sardo non ha rivali – sono già nel circuito delle cose da vendere e il loro valore dipende dalla accessibilità, dalla quantità di volume realizzabile e dalla distanza dal mare. Un facile calcolo che sarà il motivo conduttore di ogni investimento in ogni lido. L'impresa turistica è marginale: ogni intervento di trasformazione è basato essenzialmente sugli utili delle case da vendere, e infatti le attrezzature destinate alla ricettività sono ben poca cosa, se va bene attorno al venti per cento del volume complessivo previsto.

Costa Smeralda svolge negli anni la funzione di apripista di questo disegno. Acquisire titoli per volumetrie da realizzare nel tempo è il programma, già deciso dall'Aga Khan fino da quando ha prestato il suo progettista al Comune di Arzachena per redigere un piano urbanistico, che inaugura la dipendenza dei comuni dall'impresa. Un'anomalia che si trascina nel tempo, come sappiamo.

Sul prestigio di Aga Khan si fa affidamento in ogni fase del confronto sulle politiche urbanistiche della Regione, sia quando è a capo dell'azienda, sia quando si defila e resta nello sfondo – dopo l' avvento di Itt Sherathon e Starwoood e più di recente di Colony di Tom Barrack. Costa Smeralda occupa la scena negli anni della approvazione della legge urbanistica regionale e dei primi piani paesistici (1989-1993) per via delle speciali deroghe promesse dalla Regione in quella fase che si conclude con il loro clamoroso annullamento. L'insuccesso della proposta di “master plan” della Costa Smeralda, rilanciata con vari adattamenti e ridimensionamenti fino al 2003 – da molti milioni di metricubi a tre-quattrocentomila – è dato dalla irragionevolezza e dalla sconvenienza di quel programma edilizio garantito da Karim, messo in dubbio da un buon numero di oppositori specie su queste pagine.

La vicenda di Costa Smeralda – luogo, evento, modello – è strettamente intrecciata alla storia del turismo nell'isola ed è indispensabile per spiegare la Sardegna di questo mezzo secolo: non solo per esaminare le politiche di governo del territorio, tra luci e ombre, ma pure per rileggere i nostri comportamenti, in qualche modo influenzati da una vicenda così vicina e così lontana. D'altra parte Costa Smeralda si ritaglia una parte nella potente iconografia anni Sessanta, tra fatti, volti, cose prima del '68: matrimoni regali, Kennedy, Marilyn, auto, minigonne, elettrodomestici, Beatles, Vietnam, eccetera. L' estate al mare è un'esigenza e il mercato avverte la convenienza di renderla alla portata di tutti e di allungarla (a cominciare dalle canzoni balneari che durano fino a Natale). E' il nuovo corso della mitologia della vacanza, già in tanta letteratura tra Otto e Novecento: Carducci che lancia località alpine, le atmosfere gozzaniane, drammi e commedie da Maupassant a Proust e le autobiografie adolescenziali che hanno come scenario la villeggiatura.

Il modello inventato da Karim è in grado di convincere e percepito dalla politica come replicabile. Un'idea che si realizza al di fuori di ogni strategia, in modo pervasivo e influenzando il mondo dei sardi in modo imprevedibile anche sul piano estetico. Ne deriva un florilegio di facsimili dappertutto: grandi o piccole filiazioni che dalla originaria miscela semantica (si è parlato sbrigativamente di “stile sardo”) hanno attinto liberamente. Costa Smeralda, icona pop, è stata fonte di ispirazione: per i vacanzieri continentali e per i sardi residenti anche a distanza dalle rive e propensi a sentirsi turisti tutto l'anno. Il travestimento, con questa matrice, è oggi un tratto distintivo del paesaggio sardo urbanizzato, che deborda nei vecchi centri dove pure qualche antico palazzetto indossa l'abito delle ferie che ci piace vederci addosso, mescolando con enfasi finto rustico e finto antico. Sale sulle ferite aperte dalla quantità di volume diffuso dove ha deciso l'impresa edilizia.

Costa Smeralda esibisce di continuo la fedeltà al “credo stilistico” delle sue origini inventato per gioco e per il business, e mena vanto per questo: ma non nega e anzi auspica la sua crescita volumetrica pure in ambiti di pregio e a partire dai suoi archetipi.

Ma attenzione: continuiamo a dire Costa Smeralda, come se esprimesse ancora una linea condivisa. Oggi, invece, il famoso condominio vive le tensioni che il mercato degli immobili suscita, accentuate dalle leggi del corso berlusconiano come il piano-casa: guastando i rapporti di vicinato, e quando le trasformazioni tolgono la vista del mare non mancano le istanza ai tribunali.

E capita che Barrack e il Comune manifestino in piazza, con il sostegno dei potenziali occupati nei cantieri edili, ma con modi un po' scomposti contro una ordinanza che disarma il piano-casa. L'impressione che Costa Smeralda abbia perso l'aristocratica eleganza è forte (c'è chi coglie sempre l'occasione per rimpiangere i bei tempi andati confrontando gli stili: lo Yachting Club del principe con il Billionaire di Briatore-Santanchè, la terrazza di Marta Marzotto con i raduni di Lele Mora e Tarantini; ma questa è un'altra storia).

Oggi come ieri ex Costa Smeralda propone con determinazione i suoi progetti provocando ancora divisioni nel Comune che l'accoglie. Un piccolo Comune che ha accumulato un'esperienza di tutto rispetto e si potrebbe ormai consentire di governare il territorio con un piano e un contegno liberi da soggezioni culturali e oltre le agiografie. Perché le buone idee per il turismo in Sardegna sono da cercare oltre l'Aga Khan e i suoi successori. Peccato che le proposte del nuovo governo regionale portino indietro il dibattito di qualche decina di anni e incoraggiando le amministrazioni locali a promuovere la liquidazione dei nostri beni più preziosi. Come negli anni Settanta.

Isola brutta e perduta

di Giorgio Todde

La Costa Smeralda è la metafora perfetta di un drammatico cambiamento e di una decadenza che non finisce più. Noi siamo lo spazio che occupiamo e il nostro corpo, spirito compreso, soffre oppure è contento secondo quello che lo circonda. Per questo un viaggio attraverso la Sardegna imbruttita e volgare di oggi, costituisce un dolore. Il brutto e il finto hanno ottenuto la loro vittoria e spesso si intersecano sino a essere indistinguibili.

Alle volte il finto è più brutto del brutto e noi rimpiangiamo il come sarebbe potuto essere.

Non si tratta della diatriba eterna tra passatisti e modernisti. Che tutto muti, infatti, non è in discussione, ma sono i modi del cambiamento che inquietano. Basta guardarsi intorno per ammettere, semplicemente, che la Sardegna è diventata, sotto i nostri occhi colpevoli, brutta e finta. Ma per un cattivo sillogismo si dice che è «bella» perché è sempre stata «bella» e dunque sarà «sempre bella».

Qualcuno racconta la frottola che, in fin dei conti, l'idea di bello è soggettiva. Ma, al contrario, il brutto e il bello attengono all'assoluto, sono universalmente riconosciuti, non sono categorie soggettivamente elette e ogni epoca stabilisce una propria idea di bello universale.

Le società culturalmente solide e avvedute si ammodernano, modellano il nuovo su se stesse e non si limitano a

modellarsi al “nuovo”, attente a non spaesarsi e a non svegliarsi in un mondo che non

riconoscono più.

Più di mezzo secolo fa ci hanno «rivelato» che conducevamo una vita da poveri, dura e impossibile. Che «serviva modernità». Così da allora ogni cosa ha iniziato a mutare con una velocità che non avevamo conosciuto. Il «mondo moderno» era di colpo arrivato sin qua e ci abbracciava.

Certi modernizzatori erano «gufi dal gozzo pieno», per. Ci parevano semidei. E, sbigottiti perché l'universo si interessava a noi, ci siamo addirittura sentiti astuti quando abbiamo svenduto in un tragico saldo la nostra terra iniziando dai confini acquatici, permettendo perfino che venissero dati nuovi nomi a cale e promontori, avvisaglia, questa arrendevole toponomastica, dello sconvolgimento che ne è seguito.

Abbiamo ascoltato promesse di ricchezza, sprovveduti e sottomessi, incapaci di credere che il tesoro avuto sotto il naso per tanto tempo valesse qualcosa, sbalorditi e intimamente grati che qualcuno ci prestasse attenzione. Ma, soprattutto, ci siamo vergognati di come eravamo, sino alla triste negazione di noi stessi.

Le città, le campagne, la galassia di quasi quattrocento paesi che avevano concorso a determinare un'interessante varietà di costumi, conservando però un carattere«nazionale», tutto questo confluisce oggi in un amalgama dove tutti e tutto sono uguali a tutti e tutto. Dei caratteri originari dei luoghi e di chi li abitava resta una caricatura grottesca, un rimasuglio che imbellettiamo e esibiamo sino al ridicolo.

Dicono che siamo più ricchi. Però la misura del benessere è un'operazione sfuggente. Difficile convincersi che oggi siamo una comunità davvero più ricca di mezzo secolo fa e che il mondo intorno non sia che un'illusione di ricchezza.

C'erano un tempo famiglie che costruivano case, quelle necessarie, allevavano molti figli e li facevano studiare, mentre oggi la nostra «ricca modernità», spesso tutto ciò non lo permette. I pochi giovani che ora sono al mondo

da queste parti abbandonano la scuola precocemente, vivono nell'oblio del passato, messi di fronte a un futuro fasullo. E i veri poveri si moltiplicano.

Possediamo però ancora molto territorio nobile e non violato. Abbiamo conservato, in parte, modi di vita fisiologici

e caratteri a nostra misura. Abbiamo assunto e integrato qualche segmento di «buona modernità». Così capita, in

certe nostre campagne di vedere immensi orizzonti liberi, di provare il senso dell'infinito e di ricavarne gioia e salute. Ma capita sempre meno e il paesaggio viene trangugiato con una velocità travolgente. Eppure avremmo potuto fare tesoro di essere arrivati per ultimi alla «modernità». Avremmo dovuto «tornare all'antico e sarebbe

stato un progresso». Invece siamo voluti Rinascere.

La Rinascita.

Meglio dire «le» Rinascite, visto che ne abbiamo avuto più d'una. Grandi quantità di denaro pubblico, benefiche

e tossiche, si rovesciarono, ma ancora accade, nelle nostre casse e nella nostra cultura impreparata a reggerne l'urto, per nutrire sogni fallimentari. Così anziché «rinascere» abbiano iniziato a dissolverci dentro una vita che non era la nostra. Le fabbriche e l'ossessivo sogno turistico. Poi l'edilizia ancora più angosciante. La tragedia

della perdita dell'agricoltura e oggi, per logica conseguenza, il declino del mondo pastorale.

Tutto in una manciata di decenni.

Sono apparsi, al solo suono della parola Rinascita, plotoni di politici di cartapesta e managerini locali con emblematici nodi della cravatta sempre più gonfi, passati dal velluto al gabardine con una velocità azzardata. Allarmanti quantità di denaro sono piovute sull'isola e sono refluite chissà dove. Anche noi avevamo i morti in fabbrica e nei cantieri, i morti per avvelenamento industriale, i morti nelle strade. Li abbiamo cinicamente considerati una «tassa della modernità». Andavamo «veloci» al mare dopo averlo ignorato per millenni, distruggevamo anche noi le coste intatte, avevamo in casa, finalmente, docce, vasche da bagno e bidet. E lasciavamo tra i ricordi il pozzo nero del cortile.

Non abbiamo nostalgia del pozzo nero. No. “E’ che per costruire il cesso in casa abbiamo distrutto la casa”, diceva nei primi anni Sessanta il capomastro di un paesino, mentre demoliva una bella abitazione di paglia e fango.

Oggi i giornali, le televisioni, le brochure turistiche, gli stand patinati e falsi delle innumerevoli fiere del turismo, e perfino certa letteratura enfatica, «spugnata» come i dozzinali intonaci «smeraldini» che incrostano paesi e città, descrivono un'isola e un paesaggio che non esistono più.

Soltanto i luoghi dimenticati sono salvi e la dimenticanza è l'unica forma di tutela di cui siamo capaci.

Eppure la bellezza è, oltretutto, un inesauribile valore economico inestinguibile. Però noi sardi vediamo senza comprenderlo il valore sostanziale del nostro mondo, delle nostre cose, del nostro paesaggio, del mare e perfino

del vento e del cielo. E sospettiamo di possedere una ricchezza solo se ci viene indicata da altri. Allora ci avventiamo su quel «valore», lo sbraniamo, convinti che sia nostro e non un bene comune e lo consumiamo sino a che non ne resta che qualche traccia, oppure nulla.

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