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Federica Angeli
Così quei bond a rischio senza prezzo e controlli sono finiti alle famiglie
12 Dicembre 2015
Capitalismo oggi
«Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole». Cominciato lo scarica barile. Articoli di Federica Angeli e Ettore Livini su
«Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole». Cominciato lo scarica barile. Articoli di Federica Angeli e Ettore Livini su

la Repubblica e di Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

La Repubblica
“HO LUIGI SULLA COSCIENZA
MA L'ORDINE DI MENTIRE CI ARRIVAVA DALLA BANCA”

di Federica Angeli

«Io Luigino me lo sento sulla coscienza perché mi sono comportato da impiegato di banca e se fossi stato una persona che rispettava le regole non gli avrei fatto fare quel tipo di investimento». Marcello Benedetti è un ex impiegato della banca Etruria di Civitavecchia. Licenziato un anno fa da quella filiale per un procedimento penale che ha in corso, Marcello ora monta caldaie in giro per la sua città. Il contratto delle obbligazioni acquistate da Luigino D’Angelo, il pensionato che si è tolto la vita per aver perso 110mila euro, porta la sua firma. Benedetti accetta di rilasciare l’intervista a patto che non si sfiori l’inchiesta che lo ha travolto, e che non riguarda i bond subordinati: su questo non può rilasciare dichiarazioni.

Fu lei a “convincere” Luigino ad investire i suoi risparmi in obbligazioni subordinate?
«Sì, Luigino fu uno dei primi clienti della banca a cui proposi questo investimento».
Lo mise al corrente dei reali rischi che correva in questo tipo di operazione?
Gli occhi si inumidiscono. «Firmò il questionario che sottoponevamo a tutti, nel quale c’era scritto che il rischio era minimo per questo tipo di operazione».
Una bugia scritta in un contratto?
«In realtà nelle successive carte che il cliente firmava, era presente la dicitura “alto rischio”, ma quasi nessuno ci faceva caso. Era scritto in un carteggio di 60 fogli».
E voi impiegati non mettevate al corrente i clienti?
«Avevamo l’ordine di convincere più clienti possibili ad acquistare i prodotti della banca, settimanalmente eravamo obbligati a presentare dei report con dei budget che ogni filiale doveva raggiungere. L’ultimo della lista veniva richiamato pesantemente dal direttore».
Eravate però perfettamente al corrente di cosa significasse vendere ai vostri clienti delle obbligazioni subordinate, giusto?
«Sì. Ogni anno c’era un aumento del capitale e per farlo dovevamo chiamare tutti i clienti e fargli rivedere azioni, obbligazioni, etc».
Che rapporto aveva lei con Luigino?
«Lo conoscevo benissimo, sia lui che la moglie Lidia. Era uno dei clienti più diffidenti e convincerlo a fare proprio quel tipo di investimento non fu facile».
Ma lei nella sua filiale è ricordato per essere quello sempre in cima alla classifica dei report settimanali.
«Sapevo fare bene il mio lavoro. E quando mi resi conto che l’emissione delle obbligazioni subordinate era troppo frequente da parte della banca Etruria capii che era possibile un imminente fallimento. Mi venne in mente dunque di mettere al riparo alcuni clienti, tra cui appunto Luigino. Per cercare di far avere loro la liquidazione sia delle subordinate che delle ordinarie, proposi di fare una gestione di fondo. Ricordo che dissi a Luigino: “Non succederà mai niente alla banca, ma se dovesse in questo modo salvi i tuoi risparmi». Ma lui non volle farlo: il suo problema era che voleva un rendimento semestrale cosa che la gestione del fondo non gli garantiva. Accettarono solo una quarantina di clienti, svuotai il comparto delle obbligazioni. Gli altri sono andati a finire come lui: hanno perso tutto».
Pare di capire che la linea fosse quella di mentire al cliente, o meglio, di omettere verità. È così?
«È così. Quando i clienti venivano a chiederci la liquidità la banca ci diceva di rispondere che non ne aveva e che non sapevamo quando sarebbe stata disponibile. Quando si facevano insistenti, dovevamo dirgli che quelle obbligazioni erano finite nel mercato secondario e che non si vendevano».
Un castello di menzogne senza che la coscienza di nessuno di voi, lei compreso, avesse un sussulto?
«Eravamo tutti in una sorta di sudditanza psicologica. Dal 2007 al 2014 le azioni sono crollate da 17 euro e rotti a 1 euro e 50 e questo era indicativo del fatto che dovevamo dirottare le entrate su altri prodotti e che dovevamo fargli acquistare la qualunque, anche le subordinate. Avendo ingolfato i creditori medio-piccoli tutti noi convincevamo i più danarosi assicurandogli che sarebbe stato un bene per loro, un affare seguendo i nostri consigli. E poi via con lo slalom di bugie, rassicurazioni e risposte evasive».
Ha parlato di pressioni psicologiche.
«All’interno della banca ci dicevano che la banca era sull’orlo del fallimento, e che l’aumento di capitale serviva a salvarci e che se non ci fossimo dati da fare la banca avrebbe chiuso e noi saremmo stati licenziati. Ecco perché ognuno di noi convinceva più clienti possibili».
La logica del mors tua vita mea l’ha spinta a tradire la fiducia dei suoi clienti?
Scoppia a piangere Marcello Benedetti. «Questa è la cosa che non mi perdonerò mai. Aver tradito chi credeva in me. E alla luce della tragedia accaduta al signor Luigino, so che non potrò mai trovare pace né perdonarmi».

La Repubblica

PER UN PUGNO DI EURO I CONFLITTI DI INTERESSE CHI COMPRA E CHI VENDE
di Ettore Livini

Milano. Il loro nome è Bond. Subordinated bond. Al secolo, le obbligazioni subordinate delle banche. Fino a pochi mesi fa uno degli investimenti preferiti degli italiani, sicuro (si pensava) come i Bot e il lieto fine di 007. Oggi, per molti di loro, un incubo: più di 10mila persone hanno visto andare in fumo i risparmi di una vita, in un poker di salvataggi – Pop. Etruria, CariChieti, Banca Marche e Carife - che ha ridotto a carta straccia i 788 milioni di euro di titoli che avevano in portafoglio. Il loro dramma ha fatto scattare l’allarme rosso in centinaia di migliaia di famiglie: gli acquirenti dei 71 miliardi di strumenti simili “piazzati” sul mercato. Gente che spesso li ha comprati senza aver la minima idea del loro rischio, malgrado un tortuoso iter d’acquisto tra prospetti chilometrici, documenti informativi (o presunti tali) e consulenti a volte interessati. Ecco le tappe dell’Odissea di queste obbligazioni, dall’emissione fino alle tasche degli italiani, dal boom all’elettrochoc di queste ore.

Il successo dei bond subordinati è figlio di un’esigenza antica come il mercato: incrociare domanda e offerta. La domanda dei risparmiatori, a caccia di guadagni in un mondo dove i BoT rendono il -0,0003%; l’offerta delle banche, a caccia di liquidità in un momento in cui clienti e imprese faticano a pagare le rate di mutui e prestiti. Questi titoli hanno un forte appeal per entrambi: concorrono al patrimonio degli istituti, aiutandoli a rispettare i parametri imposti dalla Bce e piacciono ai risparmiatori per gli interessi. I bond delle società più solide rendono il 2-3% in più dei titoli di stato, quelle in difficoltà il 10%.
In soldoni, dai 200 ai mille euro l’anno di maggior guadagno per un investimento di 10mila euro. Le obbligazioni strutturate sono così decollate e il loro viaggio verso le tasche dei risparmiatori è iniziato “tarandone” la taglia. Delle 360 emissioni in circolazione (le hanno fatte tutti, da Intesa e Unicredit fino alle mini- banche di montagna) oltre 150 - calcola Consultique – sono accessibili investendo solo mille euro. Cifra alla portata di quasi chiunque, un centesimo dei 100mila di soglia minima per quelle riservate agli “scafatissimi” investitori istituzionali. Che, guarda caso, sono solo 38.
Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole. Quelli delle sigarette sono stampati a caratteri cubitali (“Il fumo uccide”) sui pacchetti. Sui detersivi c’è il teschio per evitare che finiscano ai bambini. Le istruzioni per l’uso dei bond strutturati sono più sobriamente affidate a due strumenti: il prospetto imposto da Consob che elenca i pericoli dell’investimento e il documento Mifid dove la firma dell’acquirente certifica che il venditore ha fatto il suo lavoro: tenendo conto di obiettivi e conoscenza dei mercati e offrendogli prodotti in linea con il profilo di rischio personale.
Funziona? Evidentemente non troppo. Il documento Mifid è un tomo di decine di pagine in caratteri-bonsai che il cliente tende a siglare in automatico fidandosi della banca. I prospetti - completi a norma di legge, per carità – elencano una litania di rischi (compreso quello di bail-in) cui manca solo l’ipotesi di invasione di cavallette. E il consulente è spesso in conflitto d’interessi: quasi sempre è un dipendente della banca che ha emesso i titoli subordinati. A volte è incentivato con bonus e premi per venderli. Questo cocktail esplosivo ha attirato tra 2011 e 2012 il 10,8% dei risparmi tricolori verso le obbligazioni bancarie (a Parigi e Londra erano il 2%). Un esodo che allora non è spiaciuto certo a Governo e Banca d’Italia: buona parte della liquidità raccolta degli istituti è servita in quei mesi di spread alle stelle per acquistare Bot e Btp, regalando ossigeno al Tesoro.
Oggi, a frittata fatta, in nodi sono arrivati al pettine. Il più grande è l’azzeramento del loro valore. Ma non c’è stato bisogno di arrivare fino a qui per far maledire a molti il giorno in cui hanno comprato i bond subordinati. Tanti hanno iniziato prima, quando hanno provato a venderli in anticipo sulla scadenza. Ben 120 obbligazioni, spesso quelle delle realtà più piccole, non fanno mercato. Chi prova a liberarsene non trova un acquirente. Non hanno valori ufficiali. E quasi sempre l’unico disposto ad acquistarle è chi le ha vendute: la banca. Che a quel punto fa il prezzo. Risultato: si resta con il cerino in mano, anche quando si sente puzza di bruciato. Solo pochi obbligazionisti di Banca Marche sono riusciti nelle ultime settimane a scampare al bail- in, perdendo il 50%. Per gli altri l’Odissea è finita male. Forse - dicono in molti con il senno di poi - sarebbe stato meglio non fosse mai iniziata. Vietando la vendita dei bond subordinati ai risparmiatori.
Il Fatto Quotidiano
DI CHI è LA COLPA? BANKITALIA SE LA PRENDE CON LA CONSOB: TOCCAVA A VOI LA VIGILANZA
Dai tempi di Antonio Fazio e le inchieste sui “furbetti del quartierino”, dieci anni fa, mai la Banca d’Italia si era trovata così sotto accusa come ora, per i 130 mila risparmiatori che hanno perso i loro investimenti nel “salvataggio” di quattro banche arrivate al collasso nonostante le ispezioni e i commissariamenti di via Nazionale. Vista la scarsa abitudine alle critiche, i vertici di Bankitalia sbagliano a calibrare le reazioni. Troppo difensivo il governatore, Ignazio Visco: «Siamo sicuri di aver fatto il meglio». Troppo aggressivo il direttore generale Salvatore Rossi che, in un’intervista al Corriere della Sera, scarica le responsabilità sulla Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa: «Non possiamo vietare di vendere questo o quel prodotto. E ricordo che a vigilare sulla sollecitazione al risparmio è preposta un’altra autorità”. Cioè la Consob. Rossi rivendica anche che «il governatore, in tempi non sospetti, ha chiesto di arrivare a vietare la vendita di obbligazioni subordinate agli sportelli in modo che solo investitori istituzionali potessero acquistarli e non i semplici risparmiatori».
Le obbligazioni subordinate sono i titoli al centro del disastro di Banca Marche, PopEtruria, CariChieti, CariFerrara. Si chiamano obbligazioni, ma in realtà sono strumenti che le banche emettono per rafforzare il capitale, in alternativa alle azioni. I risparmiatori pensano di star prestando soldi alla banca, in realtà ne stanno diventando soci. Con tutti i rischi che comporta. Ha ragione Salvatore Rossi? La Banca d’Italia ha fatto la sua parte e la colpa è della Consob?
Prendiamo l’audizione parlamentare del vicedirettore di Bankitalia Fabio Panetta sulle nuove regole europee, il 20 ottobre: «In prospettiva, andrà valutata l’opportunità di introdurre espliciti vincoli normativi al collocamento degli strumenti più rischiosi presso la clientela meno consapevole, limitandone l’offerta a specifiche categorie di investitori professionali». Un auspicio di intervento del governo e del Parlamento. Però poche righe prima, Panetta parlava dell’importanza di fare maggiore attenzione visto che, all’improvviso, in un Paese in cui le banche non erano mai fallite, azionisti e creditori ora rischiano: «Gli intermediari dovranno rispettare scrupolosamente, caso per caso, gli obblighi di trasparenza e correttezza stabiliti per l’emissione, il collocamento e la negoziazione degli strumenti più rischiosi presso la clientela al dettaglio. Le autorità dovranno verificare il rispetto delle regole, intervenendo con decisione per correggere eventuali violazioni».
Non si registrano interventi specifici di prevenzione, se non un vademecum sul sito e un incontro con le associazioni dei consumatori. Anzi, le obbligazioni subordinate in questi anni sono state vendute al retail (i piccoli risparmiatori) perché gli investitori istituzionali non le avrebbero mai comprate. E le emissioni spesso erano conseguenza dei solleciti, proprio di Bankitalia, a rafforzare il capitale. E la Consob? L’autorità guidata da Giuseppe Vegas non ha preso bene l’attacco di Bankitalia: già a fine 2014, quando il bail in è stato approvato a livello europeo, ha stabilito che le banche «hanno il dovere di condurre autonome valutazioni per la delimitazione del perimetro dell’offerta di prodotti finanziari, in coerenza con le connotazioni del proprio target di clientela» anche individuando i prodotti che «non si prestano alla realizzazione delle esigenze di investimento dei propri clienti». E tra queste indicava le obbligazioni subordinate. Dal 2018 la direttiva europea Mifid 2 darà il potere alla Consob di vietare i prodotti che non ritiene idonei alla vendita.
La tensione tra Consob e Bankitalia sul bail in non risale a ieri. In Parlamento, 22 ottobre, Vegas contestava «l’obbligo di differire la diffusione al pubblico della notizia relativa alla procedura di risoluzione (cioè lo smantellamento della banca, ndr) sino al momento della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, sul sito web della Banca d’Italia e su quello dell’ente sottoposto a risoluzione, anche ove la sussistenza dei presupposti per l’avvio della procedura sia già nota all’emittente e ai componenti dei suoi organi di amministrazione». Tutto segreto fino all’ultimo, neppure la Conosb che vigila sulle molte banche quotate può esserne informata. Poi una stoccata in codice: la norma europea. «Tale norma non è volta a recepire specifiche disposizioni della direttiva BRRD, che si limita a raccomandare un ‘efficace regime di riservatezza durante la procedura di risoluzione’». Tradotto: questa segretezza è stata suggerita al governo da Bankitalia che vuole il monopolio sulle informazioni sulle banche da smantellare. Meno si sa, più è difficile criticare.
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