Negli ultimi sessanta giorni, le elezioni amministrative e i referendum sull’acqua pubblica e il nucleare ci hanno detto due cose: a) i cittadini hanno voglia di partecipare, di scegliere gli amministratori di cui si fidano e di decidere; b) i cittadini hanno capito benissimo che esiste un «bene pubblico», che va difeso e preservato e che le ragioni originali della convivenza civile in una comunità si fondano proprio sulla gestione equilibrata di questo «bene pubblico comune». Di volta in volta, si tratterà di acqua, di aria, di salute, di istruzione, di trasporti, di gas, di luce, ma i cittadini elettori chiedono che tutte queste cose siano gestite nel nome e per conto di un interesse collettivo. L’idea un po’ tecnocratica che il «privato» fosse «bello» in assoluto anche per questo tipo di servizi alla comunità, è stata superata dai fatti. Il privato, è chiaro, deve essere parte in causa, ma il «bene pubblico comune» si gestisce e si ottimizza solo avendo in testa l’obiettivo generale della migliore qualità al costo più basso per l’utente.
Tutto questo, noi amministratori locali l’abbiamo chiaro da tempo e i referendum ce l’hanno confermato. Ebbene, nemmeno due mesi più tardi, la manovra economica del governo, pur doverosa nei suoi risultati finali di taglio del deficit, ci ributta indietro di anni e crea, di fatto, un terreno sul quale nessuna amministrazione locale (di qualunque colore politico) è in grado di resistere. I criteri di «virtuosità» (tanto per fare un esempio) vanno in direzione diametralmente opposta alle indicazioni uscite dai referendum. Altro che acqua pubblica! Il comune «virtuoso», secondo il governo, è quello che privatizza tutto, che non gestisce più niente, che non è nemmeno più in grado di controllare la qualità dei servizi che offre ai cittadini.
Eppure, io continuo a credere che non si debba cedere. Credo, ad esempio, che forti dei risultati elettorali e delle indicazioni dei referendum, i sindaci delle grandi città debbano rilanciare un’idea di comunità capaci di fare Rete ciascuna all’interno del suo territorio e, tutte insieme, nei collegamenti e nelle relazioni (non solo strettamente viarie e infrastrutturali) fra le diverse aree. Il mondo globalizzato e le tecnologie disponibili oggi mettono in «movimento» (reale e virtuale) milioni di persone. E noi dobbiamo immaginare e costruire città in grado di rispondere alle loro nuove esigenze: esigenze di chi vive in un luogo, di chi ci lavora soltanto, di chi lo attraversa ogni giorno, di chi se ne servirà in un periodo più o meno lungo della sua vita.
Quindi, città più «elastiche», meno fondate (anche dal punto di vista economico e finanziario) sulla proprietà fondiaria e più attente all’uso equilibrato del territorio. A Genova ci stiamo provando con il Puc (Piano urbanistico comunale) che non parla più tanto di volumi e cubature come i piani regolatori di una volta, ma ci dice che dovremo far calare del 23,7% la produzione di CO entro il 2020, che dovremo far crescere il verde (+21%), far calare il traffico veicolare (-8,2%), costruire 8 nuovi parcheggi d’interscambio, salvare 180 chilometri quadrati di territorio da qualunque attacco urbanistico, piantare 50 chilometri di viali alberati, riqualificare 10 chilometri di coste, aumentare del 10% gli addetti alle attività produttive, ridurre da 91 a 58 minuti la percorrenza in treno da Genova a Milano.
Allora, io credo che tra Milano, Torino e Genova (data la vicinanza e i rispettivi ruoli economici) si possa riparlare di idee e politiche comuni dell’uso del territorio, e con Piero Fassino cominceremo a farlo nell’incontro in programma oggi. Perché, secondo me, è possibile individuare scelte che ci vedano protagonisti insieme. Anche a cominciare dal «no» a questa manovra ma, soprattutto, fin d’ora, a individuare i «sì» che servono per le nostre città e i nostri cittadini.
C’è stato un tempo, verso la fine dello scorso millennio in cui le città sono riuscite ad esprimere filosofie, politiche, modi di vivere e di consumare in qualche modo coerenti a dei progetti che partivano da idee condivise e solidali. Così sono stati affrontati momenti di crisi, di grandi ristrutturazioni produttive che portavano con sé perdite enormi di posti di lavoro. Forti di idee forti, le nostre città hanno tenuto: il famoso «tessuto democratico», che ha retto nei momenti peggiori della nostra storia recente, si fondava anche sulle grandi comunità cittadine in cui lavoro, capitale, Stato, istituzioni culturali, Chiesa, classi sociali discutevano, lottavano, si scontravano, ma trovavano le mediazioni necessarie ad andare avanti, a non lasciare nessuno indietro. Io credo che, oggi, questi meccanismi (questi sì, davvero virtuosi) possano tornarci utili e possano essere allargati ai rapporti tra tre grandi città come le nostre.