Questo documento è la trascrizione di una lunga conversazione, promossa dal nostro Giornale, nel salotto di casa Crespi.
Protagonisti sono i due personaggi probabilmente più noti a quella (piccola) parte della popolazione italiana che presta attenzione alle vicende e al futuro del patrimonio artistico del Paese, senza limitarne il significato alla sola funzione di richiamo turistico o, peggio, al solo valore intrinseco di mercato.
Giulia Maria Crespi, discendente della famiglia milanese di industriali tessili, già proprietari del «Corriere della Sera», è la fondatrice nel 1975 del Fai, Fondo Ambiente Italiano, l’organizzazione senza fini di lucro che non solo annovera tra le sue proprietà sceltissime località naturalistiche e dimore storiche alle quali assicura un’esemplare conservazione e l’apertura al pubblico, ma catalizza il sostegno di 80mila aderenti, sul modello del National Trust inglese. Questo rende il Fai un’associazione molto qualificata a rappresentare una parte significativa dell’opinione pubblica, quella cosciente dell’eccezionale importanza del patrimonio artistico in un Paese come il nostro.
Salvatore Settis, archeologo, direttore della Scuola Normale di Pisa, editorialista di «la Repubblica », dopo la scomparsa di Federico Zeri è senz’altro il principale e più vigoroso tutore pubblico del nostro delicatissimo patrimonio, per proteggerlo dalla trascuratezza ma, ancor peggio, dagli usi impropri e dannosi e dagli abusi ai quali è facilmente soggetto da parte di quanti non riescono ad avere una visione diversa da quella del rendimento quantitativo.
Abbiamo promosso questo incontro per avere la vostra opinione sulla situazione attuale, i rischi, i problemi. Opinioni che peraltro sono già state espresse più volte da Giulia Maria Crespi in ogni suo discorso pubblico e da Salvatore Settis nei suoi fondamentali articoli. Quello che ci interessa è proprio il confronto delle vostre autorevolissime opinioni, fare con voi il punto della situazione.
C: Aveva ragione Bob Kennedy, che nel 1967 fece il celebre discorso in cui disse che il Pil (Prodotto interno lordo) così come abitualmente calcolato è del tutto sbagliato perché non tiene conto di infinite cose. Per esempio dello stress, dello squallore delle periferie, dell’ignoranza diffusa. Per esempio, del non pensare alla bellezza, o allo smog. Tutto questo dovrebbe rientrare nel calcolo del Pil di un Paese. Tutto ciò mi pare perfettamente congruente con la situazione della finanza e dell’economia internazionale, la cui idea distorta di sviluppo e di globalizzazione temo ci porterà verso la catastrofe. Penso anche che dopo questo dramma, ci sarà una sorta di purificazione e l’umanità ritroverà se stessa.
S: Con riferimento specifico alla situazione italiana, ma tenendo presente il quadro globale, dobbiamo mettere insieme due aspetti: uno è evidenziato sempre di più dalle ricerche mediche, l’importanza delle patologie da disagio ambientale. Il riferimento non è soltanto all’inquinamento dell’acqua o dell’aria, ma al disagio che coglie il cittadino, che vede il suo mondo trasformarsi, che è obbligato ad abitare in periferie squallide, che vede il paesaggio intorno a lui via via devastato: il paesaggio che amava, in cui si identificava. Da tutto questo nascono delle patologie che sono psicologiche, ma anche psicofisiche. Un altro aspetto (e continuo intenzionalmente a citare ricerche non di storici dell’arte o di «tutelatori» di professione) riguarda le ricerche degli economisti. Un numero sempre maggiore di economisti (cito per tutti il premio Nobel Amartya Sen) hanno via via elaborato nuove teorie sullo sviluppo economico, in particolare le teorie cosiddette della «crescita endogena », che vuol dire la crescita che una popolazione è in grado di portare avanti dal proprio interno, non perché stimolata da grandi imprese multinazionali, ma perché riesce a svilupparsi autonomamente. Questo è importantissimo, ad esempio, per i Paesi dell’Africa. Le teorie della crescita endogena vanno prendendo piede e includono fra i maggiori fattori di produttività l’identità culturale. Quindi, la distruzione dell’identità culturale diminuisce la produttività, e la riaffermazione dell’identità culturale accresce la produttività. Appare dunque del tutto evidente quanto, anche da altri punti di vista extradisciplinari (medico, economico ecc.), la cura del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico-artistico e dell’identità culturale siano dei fattori essenziali. Questo i nostri padri, i nostri nonni, gli italiani di 200 anni fa l’avevano già capito, anche senza aver elaborato questa teoria. L’idea della tutela dell’ambiente e del paesaggio è nata in Italia. Ma oggi il nostro Paese sta dimenticando tutto questo, o rischia di dimenticarlo. Come mai il luogo in cui è nata l’idea della tutela contiene oggi delle forze distruttive per questa stessa idea?
Osserviamo le reazioni seguite al terremoto in Abruzzo e le ipotesi emerse sulla ricostruzione: il pericolo che è stato paventato in questa circostanza è proprio quello della perdita d’identità. Ci piacerebbe che da questa conversazione emergesse la risposta alla domanda: «Che cosa sta cambiando o è cambiato in questi ultimi anni per cui dovremmo, forse, cambiare il nostro atteggiamento, le convinzioni nelle quali avevamo creduto negli ultimi 10, 20, 50 anni?»
C: Una persona, prima di qualunque altro sentimento, deve avere la pancia piena. Poi, deve ricercare le ragioni di quanto avviene di sbagliato, e per me la ragione prima è l’avvento del materialismo. Questo materialismo si è diffuso alla fine del Medioevo, e da Cartesio l’uomo è sempre più sprofondato nella materia allontanandosi dalla spiritualità. Quanti grandi artisti lavoravano per pochissimo, o addirittura non venivano pagati? Eppure lavoravano. Beato Angelico dipingeva in ginocchio. Lei immagina un artista moderno che dipinge in ginocchio?
S:Vorrei proporre una riflessione di carattere più storico. Se giriamo nelle zone meglio conservate delle nostre campagne, o anche in certe città piccole o grandi, credo che tutti abbiamo notato come, fino a un certo momento, diciamo per intenderci l’inizio del Novecento, gli italiani, ricchi e poveri, dal contadino al principe, non sbagliassero. Non si vede un oggetto brutto. Da quel certo momento in poi si è persa questa cultura comune. C’era un legante che univa i ricchi e i poveri, anche quelli con la pancia non tanto piena. Il contadino che faceva un fienile, lo faceva in un modo per cui si inseriva nel paesaggio meravigliosamente bene.
L’articolo integrale è disponibile nell’edizione stampata de Il Giornale dell’Arte