Il supercapitalismo inizierebbe verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando l’America aveva creato un capitalismo democratico, inteso come un’economia pianificata, sia pur diretta dalle grandi corporation. Le famiglie americane, che in quegli anni erano prevalentemente composte da operai e impiegati, godevano di salari decenti, di garanzie sindacali del posto di lavoro, di stabilità economica, di assicurazione sulla malattia e sui diritti alla pensione. In queste ultime situazioni, favorite da uno stabile sviluppo economico, garantito da poche grandi imprese, come la General Motors, in un’America abbastanza chiusa e protezionista, si potevano riconoscere i principi fondamentali di una democrazia sostanziale che, d’altra parte, non aveva politicamente mai avvertito incertezze o vocazioni antidemocratiche. Non era proprio l’età dell’oro. Ma si trattava comunque del capitalismo democratico.
La rivoluzione, o comunque il grande cambiamento, si verifica sul finire appunto degli anni Settanta, quando l’economia americana si apre a mercati più concorrenziali e il potere si sposta dai cittadini verso i consumatori e gli investitori e così gli aspetti democratici del capitalismo declinano. L’affermazione è tassativa, sicché gli spocchiosi nostrani adepti del libero mercato e della concorrenza dovrebbero forse avere oltre che un sussulto alla lettura delle pagine di Robert Reich, – professore a Berkeley, già ministro del lavoro sotto la presidenza Clinton e attualmente uno dei consiglieri economici di Barack Obama – anche qualche spunto di umile autocritica. Insomma, il libero mercato e la concorrenza spietata fra le imprese, cioè il supercapitalismo, hanno minato, se non distrutto, una parte assai importante della democrazia e dei diritti dei cittadini. La tecnologia, la globalizzazione, la deregolamentazione hanno dato potere ai consumatori e agli investitori e i cittadini l’hanno perduto. Tutto questo ha creato una concorrenza spietata fra le industrie americane e straniere per cui, per attrarre i consumatori, si abbassano i prezzi e il metodo più semplice è quello di tagliare salari e diritti dei lavoratori. Il cittadino ha perso, non il consumatore, che con la deregolamentazione dei mercati finanziari diventa alla fine investitore nelle nuove potenti istituzioni, i fondi pensione e quelli di vario genere, oltre alle continue invenzioni di nuove strutture per attivare il risparmio da parte del sistema bancario. E anche qui, con i rischi che abbiamo appena vissuto, è la concorrenza l’unica responsabile.
E’ allora il momento di trarre qualche conclusione. La prima e più inquietante è che è pur vero che la globalizzazione e il supercapitalismo riducono la differenza fra i vari paesi – prendiamo ad esempio Cina e Stati Uniti –, ma all’interno di ciascun paese aumentano vertiginosamente le disuguaglianze, con conseguenze politiche ancora imprevedibili. E con esse aumentano l’insicurezza (non solo del posto di lavoro) e la paura del futuro, alle quali si accompagna l’unico potere dello Stato, quando non gli è tolto o col quale collude qualche grande corporation nel controllo sulle comunicazioni, sui movimenti, sulle opinioni. Gli Stati supercapitalisti arretrano continuamente fino a mettersi a disposizione di un nuovo padrone: la concorrenza nel libero mercato che soddisfa, facendo scendere i prezzi, il consumatore (e l’investitore, ma qui Reich sbaglia) che ormai si è dimenticato di essere un cittadino con dei diritti.
Il libro è rivoluzionario: al centro del supercapitalismo c’è la concorrenza che uccide la democrazia. Così scompare la tanto amata tesi – il luogo comune degli economisti – che il libero mercato è prodromico alla democrazia. E puntualmente alla prima pagina del libro l’autore ricorda questa tesi sbandierata dall’economista Milton Friedman nel marzo del 1975 a sostegno di Pinochet, la cui dittatura brutale durò ben altri quindici anni. Strano destino: i due morirono a poche settimane di distanza verso la fine del 2006. Infine, la concorrenza necessaria a soddisfare il consumatore e l’investitore diventa un male inesorabile e incurabile.
E come libro rivoluzionario l’autore invita indirettamente a una rivolta: il cittadino schizofrenico è inconsciamente esortato a far rientrare lo Stato a garantirgli i diritti di varie generazioni, secondo la terminologia di Bobbio, e a limitare il ruolo delle corporation, soprattutto nella loro operatività e struttura. Ma le ricette predisposte sono poche sicché personalmente non so neppure quanto l’autore si sia reso conto che aver sottolineato la dissociazione consumatore-cittadino, l’aver indicato nella concorrenza e nel libero mercato la caduta senza ritorno della democrazia, sia un manifesto rivoluzionario. Se identifichiamo la classe medio-alta con la nuova borghesia, a partire dalla fine degli anni Settanta la trasformazione è evidente: da lavoratori e impiegati a professionisti e dirigenti, con un’indagine spietata sui lobbisti e sugli avvocati che condizionano a Washington sia l’operato del governo, sia del potere legislativo, c’è ovviamente l’assimilazione borghesia-corporations.
Un’osservazione finale mi appare necessaria per inquadrare e valutare, entro i suoi giusti limiti, un libro che deve essere letto da chiunque voglia capire il mondo in cui viviamo e non si lasci affascinare dai falsi sacerdoti che vanno noiosamente, ma insistentemente predicando che tutto si può risolvere con la concorrenza e il libero mercato. Un libro, tuttavia, che tradisce un difetto di certa cultura americana, in base alla quale le crisi finanziarie sono delle malattie temporanee che in qualche modo si risolvono. Di conseguenza il sistema americano non è e non può essere oggetto di discussione, perché è il solo che può garantire sviluppo economico e globalizzazione. Questa è la tesi sottostante.
L’impostazione non regge, prima di tutto perché il supercapitalismo è soprattutto un capitalismo finanziario, e qui invece la finanza non appare quasi neanche come comprimaria. È mai possibile, mi chiedo, che un attento studioso come Robert Reich non si sia reso conto che solo la concorrenza sfrenata che ciascuno di noi vuole come consumatore non sia l’unica origine del deficit di democrazia, ma che dalla fine degli anni Settanta nella struttura stessa delle corporation e dei mercati è apparso un vero e proprio malanno che ha minato l’intero sistema e ha oltraggiato spesso la stessa concorrenza: cioè il conflitto di interessi, neppure nominato nel libro. Così, come ho già detto, è assente qualunque critica al sistema bancario e finanziario. Quindi non si è neppure accorto che il vero deficit di democrazia sta nella nuova lex mercatoria, di medievale memoria, la quale è imposta dalle multinazionali, dai suoi studi legali, dalle sue private corti arbitrali, e che esclude spesso le norme fissate dai legislatori e certamente non tiene in minimo conto i diritti del cittadino o i più elementari principi di democrazia.
Quel che a me pare, in definitiva, è che il deficit grave di democrazia debba essere invece affrontato mettendo sotto accusa l’intero sistema, perché la colpa sempre più grave di quel deficit non siamo noi, anzi ciascuno di noi nel suo schizofrenico sdoppiamento fra consumatore vincente e cittadino perdente. Non credo che siamo noi che abbiamo bisogno di uno psicanalista per diventare meno consumisti e più cittadini, ma sono le società per azioni, le banche e i mercati finanziari che, come del resto ho scritto nel mio ultimo libro, abbisognano di un legislatore, magari sovranazionale, severo ma né improvvisato, né prodigo di troppe inutili norme. Ma ciò vale anche per il clima, l’ambiente, per la lotta alla povertà, per il diritto cosmopolitico dei popoli ad avere asilo e una vita decente.
E’ purtroppo una scelta alternativa, condizionante per il resto del mondo, sapere se gli Stati Uniti vorranno continuare a pensare che il supercapitalismo è ineluttabile o che la democrazia dei diritti di varie generazioni, secondo le classificazioni di Norberto Bobbio, sia il valore prioritario da perseguire per tutti.