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Salvatore Settis
«Così fermerò gli ecomostri»
29 Aprile 2007
Beni culturali
“È lo Stato che deve tutelare il paesaggio, non i Comuni”. Mariella Bertuccelli intervista il Presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e del paesaggio. Da il Tirreno del 29 aprile 2007

Qualcosa si muove. Nell’Italia del cemento e dell’asfalto c’è chi comincia ad aprire gli occhi sul saccheggio del paesaggio, lo considera una vera e propria emergenza nazionale e corre ai ripari.

Ci prova il ministro Rutelli, dichiarando guerra agli ecomostri e intanto facendo muovere la magistratura che mette i sigilli ai cantieri di di Monticchiello. Ma anche rivitalizzando quell’organo in apnea che era il Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici ed affidandone la presidenza a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa, professore ordinario di Storia dell’arte e dell’archeologia classica, un Don Chisciotte della bellezza che da anni, a suon di denunce e in compagnia di poche altre voci, combatte contro i “vandali”.

Professore, finalmente il Consiglio si è messo in moto...

«Il Consiglio superiore era completamente atrofizzato. Negli ultimi cinque-sei anni si era riunito quattro o cinque volte, con un tasso di una riunione l’anno. Il ministro Rutelli ci tiene molto a che funzioni e ha voluto rivitalizzarlo: c’è voluto più tempo del previsto, ma l’importante è che sia avvenuto. Il Consiglio si è già riunito due volte, pronunciandosi su una bozza di riforma del ministero, e ha in calendario da qui a dicembre una decina di riunioni».

Cosa si aspetta da questo lavoro?

«Di dare buoni consigli al ministro».

Ci spieghi. Nell’ambito delle competenze del Consiglio ci sono anche i rapporti con le Sovrintendenze?

«No, il Consiglio superiore non è un organo che decide. Qualcuno mi ha chiesto come mai abbiamo deciso di mandare in prestito l’Annunciazione a Tokyo... E negli ultimi mesi ho ricevuto almeno 200 richieste, compresa quella di una signora che mi chiedeva perché non ci occupassimo della magnolia che stavano abbattendo nel cortile sotto la sua casa. Vorrei fosse chiaro che il nostro è un organo consultivo che si pronuncia solo sui temi su cui il ministro decide di interrogarci».

Rutelli vi ha chiesto aiuto anche per quanto riguarda l’emergenza paesaggio?

«Per il momento non c’è nulla all’esame del Consiglio. C’è invece un’altra partita aperta. Il ministro ha appena istituito una commissione, ancora presieduta da me, per i ritocchi al codice dei beni culturali. E nell’insediarla ci ha dato come compito primario quello di rivedere con attenzione la parte che riguarda il paesaggio: il mandato è quello di alzare le garanzie di protezione del paesaggio, combinando tutte le istanze possibili, dello Stato e delle Regioni, delle Province e dei Comuni».

Insieme al presidente Napolitano e al ministro Rutelli, è tra i destinatari di un appello del “Comitato per la bellezza” che fa un quadro drammatico dell’emergenza paesaggio in Italia. Lei cosa ne pensa?

«In questo il mio giudizio coincide con quello del ministro Rutelli. L’emergenza paesaggio esiste. C’è un vuoto di normativa, e quella che c’è è stata interpretata in modo non rigoroso. Di fatto lo Stato ha ceduto troppo alle Regioni le quali, in genere, hanno fatto poco o nulla. Una cosa però l’hanno fatta, hanno delegato ai Comuni. Subdelegare ai Comuni ha, a mio avviso, conseguenze negative. I Comuni piccoli, che sono la grande maggioranza e amministrano di fatto una parte enorme del territorio nazionale, non possono avere delle competenze locali di paesaggistica. Non si può pretendere, tanto per citare sempre il famoso caso di Monticchiello - come se fosse l’unico, ma ce ne sono di molto piu gravi - che il comune di Pienza abbia un paesaggista. Non dico che Pienza non debba dire la sua sul territorio del Comune, sarebbe ridicolo. Però occorre che il Comune faccia la sua parte, la Provincia la sua, la Regione e lo Stato la loro. È chiaro che questi ruoli, nel loro rapporto reciproco, non sono ancora ben definiti e lo devono essere, a livello di normativa e di prassi. Credo però che le “buone pratiche” si potrebbero istituire anche con la normativa che c’è, in attesa di migliorarla».

Ma intanto il saccheggio continua...

«Ho raccontato al ministro una mia esperienza recente. Ero a Berna, ad un convegno internazionale della Società nazionale svizzera per la protezione del patrimonio culturale. C’erano tutti i paesi confinanti e di italiani c’ero io. Mi avevano chiesto di fare una sessione plenaria e ho parlato delle normative italiane. Nella discussione che è seguita mi sono state rivolte una ventina di domande e almeno la metà erano di questo tono: “Ma cosa state facendo, perché rovinate l’Italia e proprio le zone più belle?”. Ognuno citava il posto che conosceva meglio, molti la Toscana, molti l’Umbria, altri Sicilia e Veneto. Quindi che ci sia l’emergenza paesaggio lo sanno tutti. A volte siamo noi che chiudiamo gli occhi perché non vogliamo vederla».

Quando si parla di emergenza paesaggio ci si riferisce quasi sempre a scenari naturali. E le città? Non subiscono gli stessi sfregi?

«È una preoccupazione che trovo molto giusta e che invece è stata respinta al margine. Una delle persone più intelligenti che mai si siano occupate di queste tematiche in Italia è Giovanni Urbani, direttore dell’Istituto centrale per il restauro, scomparso nel 1995. Questi problemi lui li aveva visti con grande anticipo. Per misteriose ragioni, diceva Urbani, noi ci siamo convinti che in Italia esista un oggetto che si chiama paesaggio, un altro che si chiama ambiente ed un altro ancora che si chiama governo del territorio. Ma queste tre cose sono una sola. Invece abbiamo creato degli ingorghi burocratici, una situazione in cui il territorio è di competenza degli enti locali e manca una visione complessiva. In questa disgregazione a rimetterci sono precisamente il paesaggio, l’ambiente, la città. Non c’è dubbio che il tema del paesaggio includa il drammatico problema delle periferie, delle orripilanti periferie che l’Italia ha saputo costruire distruggendo mille anni della propria storia, per non dire tremila, nel secondo dopoguerra. Questo però è un problema che non si risolve con una politica di vincoli, non limitandosi a dire quell’edificio non si tocca o lì non si costruisce. I vincoli ci vogliono ma serve soprattutto la capacità di progettare che non abbiamo. E per costruirla ci vuole un grande sforzo».

Da dove si comincia?

«Faccio una piccola riflessione, banale, elementare, che però tutte le volte suscita, nell’ambito di conferenze o altro, il più grande stupore. Perché nelle scuole italiane un po’ di storia dell’arte per il rotto della cuffia si fa, ma di paesaggio non si parla mai? C’è una ragione per cui dobbiamo far finta che non sia un tema? Chi l’ha detto? E come mai, visto che questa cosa è sotto gli occhi di tutti, nessun ministro, in nessuna riforma, ha nemmeno progettato che nei programmi di storia dell’arte ci sia spazio per il paesaggio? Questo è un deficit culturale che stiamo pagando e che i nostri figli e nipoti pagheranno ancora di più. Perché avranno un’Italia meno bella di quella che abbiamo visto noi».

Cosa risponde a chi sostiene che il paesaggio, soprattutto in Toscana, è frutto dell’azione dell’uomo, che i casali li hanno costruiti i contadini?

«Io non risponderei nulla, è giusto, chi può obbiettare qualcosa?».

E se i contadini di oggi invece del fienile vogliono fare il capannone di lamiera?

«Il capannone di lamiera non lo possono fare perché nella tradizione toscana non c’è. A Siena, ma in tutte le città comunali italiane, ci sono norme che limitano l’arbitrio del privato sin dal Medioevo. Ci sono state sempre ed in certe città ancora valgono. A Modena è ancora valida nei regolamenti comunali una norma secondo cui nulla può essere più alto della Ghirlandina. In tutto il territorio comunale, anche nei punti da cui la Ghirlandina non si vede. La tradizione italiana è quella. Non è vero che in passato ognuno costruiva quello che voleva e che oggi c’è qualche personaggio molto cattivo che per misteriose ragioni vuole imporre vincoli. Se l’Italia è diventata quel paradiso del paesaggio, dell’equilibrio uomo-natura, tutti sanno che è proprio per questa ragione. Perché lo sviluppo del paesaggio è stato armonico e governato.

Mentre ora noi vogliamo che non lo sia più, fingendo che lo sia. L’altro punto, non meno importante, è che una volta, in un momento che si può collocare tra le due guerre mondiali, c’era una cultura generale che inglobava tutto e che le vecchie generazioni ancora hanno. In realtà era altamente improbabile che una costruzione, anche abusiva, fatta da un contadino analfabeta, non fosse bella».

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