Sono interessato alla Libia e alla sua emancipazione perché lì sono nato, lì ho vissuto fino all'età di vent'anni, lì si è realizzata la mia formazione politica e anche culturale. Sono nato a Tripoli il 7 febbraio del 1931 e ne sono stato cacciato dall'autorità britannica (Bma, cioè British military administration) nel dicembre del 1951. Ho vissuto a Tripoli e nella campagna di mio nonno, a Sorman, dove ho conosciuto la fatica dei braccianti agricoli libici, largamente sfruttati dai padroni italiani. In quegli anni ho appreso della violenza dell'occupazione italiana: mio nonno era stato soldato in Libia nel 1911 e me ne ha raccontato, al punto che lui e un suo compagno volevano ammazzare un loro ufficiale. A Tripoli ho cominciato ad avere notizia della resistenza dei libici e della feroce repressione degli italiani, primo fra tutti Rodolfo Graziani, che usò anche i gas e che dovendosene poi andare all'arrivo dell'VIII armata inglese regalò la sua villa a monsignor VittorinoFacchinetti, vescovo fascista di Tripoli, anche dopo la sconfitta degli italiani e dei tedeschi del famoso maresciallo Rommel, finito poi vittima di Hitler.
Cominciai ad avere conoscenza delle ripetute impiccagioni in piazza del Pane, poi piazza Italia e ora piazza Verde dove c'era un monumento di Mussolini a cavallo, che brandisce la Spada dell'Islam e dove c'è ancora una fontana uguale a quella che qui a Roma possiamo vedere dentro Villa Borghese. Poi ho appreso anche della vile impiccagione di Omar el Muktar. Su questa vicenda q ualcosa fu raccontato da Roberto Haggiag, un ebreo straordinario che dopo quell'impiccagione smise di fare il consulente del governo italiano e poi emigrò negli Usa dove divenne produttore cinematografico.
La colonizzazione italiana oltre che barbara era demografica, tendeva alla progressiva riduzione della popolazione libica rispetto a quella italiana. Si cominciò con le famose «concessioni»: il territorio libico sulla fascia costiera era diventato proprietà statale, salvo poche oasi dove vivevano malamente, con un po' di palme e un pozzo, le famiglie dei braccianti. Questo territorio statalizzato fu diviso in «concessioni» date a cittadini italiani che ne sarebbero poi diventati proprietari. Ma questo era solo l'inizio. In Italia il fascismo aveva realizzato la bonifica delle paludi pontine. Attraverso questa bonifica un vasto territorio del Lazio era stato popolato da disoccupati provenienti soprattutto dal Veneto e dalla Bassa emiliana. Il fascismo aveva preparato case, stalle, strade e quelle terre cambiarono popolazione e cultura e furono fascistizzate. Era il modello vincente per «italianizzar» la Libia e marginalizzare la popolazione libica.
Così dopo il 1935 in Libia, ad opera, sia detto, di eccellenti architetti, furono costruiti i villaggi, tutti con nomi di personaggi fascisti (Bianchi, Breviglieri, Gioda, etc.) con le loro casette, le stalle, già con gli animali, i campi da coltivare, le strade di comunicazione. A seguito di quest'opera nel 1938 sbarcano nel porto di Tripoli tra feste e bandiere 20.000 poveri italiani provenienti grosso modo dagli stessi territori di quelli andati nell'agro Pontino. Nel 1939 ne sbarcarono altri 10.000. Poi nel 1940 l'Italia entrò in guerra e l'ambizioso progetto fascista fallì. Avevo 8 anni e i miei genitori mi accompagnarono contenti a veder quel «fiume di italianità». La Libia da colonia passò a territorio nazionale: Tripoli e Bengasi furono dichiarate province italiane, ma ovviamente i libici non divennero cittadini italiani, ma popolazione in liquidazione. I libici - va ricordato - erano esclusi da tutte le cariche pubbliche. Era escluso che un libico potesse diventare potestà (così si chiamava allora il sindaco). L'unica eccezione era per le famiglie nobili del tempo della dominazione turca: i Caramanli e i Muntasser soprattutto. Al liceo, alla fine degli anni '40 avevo solo due compagni di classe libici: Omar Muntasser e Mustafa Ben Zicri, che, ai tempi del re Idriss, divennero entrambi ministri.
In quella stagione, immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale - che avevo vissuto tutta in Libia, a Sorman, con i soldati italiani, ai quali servivo il vino di mio nonno, con i tedeschi, che furono l'ultimo reparto dell'Asse a ritirarsi e che mi chiamarono a vedere il gran polverone dei tanks inglesi che si avvicinavano - si cresceva in fretta e così tra i 16 e i 17 anni diventai comunista e sostenitore dell'indipendenza della Libia. Ovviamente non da solo. Era maturato un gruppo di intellettuali (il leader era il notaio Errico Cibelli e con lui il professor Giuseppe Prestipino) e operai (Nino Caruso, Giuseppe Russo e altri ancora). Nacque così un Partito comunista clandestino che a Botteghe Oscure si riferiva a Renato Mieli, arrivato a Tripoli come capitano Merril dell'VIII armata di Montgomery. E, nacque anche, ma pubblica, l'Associazione politica per il progresso della Libia (Appl), che raccoglieva italiani, ma anche maltesi ed ebrei e che era in buoni rapporti con il Partito del congresso di Bashir as-Sadawi.
Ricordo che questa nostra posizione a favore dell'indipendenza della Libia non piacque affatto alla comunità italiana, che allora si raccoglieva nel Circolo Italia, fondamentalmente fascista. Vale ricordare che fummo ripetutamente accusati di essere al soldo degli inglesi per strappare all'Italia la Libia. Favorimmo anche la formazione di un movimento sindacale forte tra i portuali, che realizzarono alcuni scioperi.
L'Associazione politica per il progresso della Libia raggiunse presto duemila iscritti, soprattutto italiani, ma non solo (era aperta a tutti gli abitanti di Libia). Centrale nel suo programma era la costituzione di uno stato libico e indipendente. Interlocutore privilegiato dell'Appl era il leader del Partito del congresso Bashir as-Sadawi, rientrato nel 1948 a Tripoli dal Cairo, dove aveva sede il Comitato di liberazione della Libia, da lui presieduto.
Insomma secondo il classico schema leninista avevamo un Partito comunista libico clandestino e un'organizzazione di massa l'Appl, del tutto pubblica; il suo obiettivo principale era l'indipendenza della Libia. Proprio per questo l'Appl contrastò le iniziative del governo italiano di allora e dei suoi portavoce locali ispirati dal vescovo Vittorino Facchinetti, già ammiratore e amico di Mussolini.
Quando poi venne fuori il famoso compromesso Bevin-Sforza, che prevedeva la spartizione in tre parti della Libia e l'amministrazione fiduciaria della Tripolitania all'Italia, l'Appl si unì ai libici nella protesta e ci fu un appello all'Onu per chiedere l'indipendenza immediata della Libia. L'Associazione riuscì anche ad avere un settimanale (Corriere del lunedì) e con rappresentanti nella Commissione dell'Onu.
Finalmente, il 24 dicembre 1951 viene proclamato il Regno unito della Libia, con Idriss I Senussi sovrano.
A questo punto gli inglesi decidono di lasciare la casa pulita a Idriss. Quindi espellono buona parte degli italiani membri dell'Appl e anche del Pc libico, arrestano i sindacalisti libici. Tutto ciò nel dicembre del 1951. All'inizio del 1952 si tennero elezioni piuttosto truffaldine: il Partito del congresso fu sciolto e Bashir as-Sadawi espulso.
Partecipi di questa vicenda furono Errico Cibelli, Giuseppe Prestipino, Sante Pascutto, Antonio Caruso, Giuseppe e Giovanni Russo, Mohamed Buras, Dino Marastoni, Vasta, Manzani, Ali Kadri, Clara Valenziano, Giuseppina Mazzei, Ernesto Ragusa, Mario Mazzarino, Valentino Parlato, Nino Serafin, Carlo Cicerchia e altri ancora. Vale ricordare che sempre in quel dicembre del 1951 (il Corriere del lunedì era già stato soppresso) Prestipino e Pascutto furono invitati ad andarsene e pochi giorni Errico Cibelli, Antonio Caruso, Giuseppe e Giovanni Russo, Manzani e io fummo arrestati e caricati sulla nave che ci portò in Italia. Tutto sommato non fu una disgrazia, anche se un indubbio segno dello stile imperiale britannico.