Alla scuola di Eddyburg tenutasi a Venezia il 15-16 Settembre 2016 si è parlato di cosa stia accadendo a questa favolosa città e di come le questioni che la riguardano oggi fossero gia al cuore di una stagione di urbanistica progressista di cui Edoardo Salzano è stato, insieme ad altri, protagonista. Un collegamento con la storia dell’urbanistica Italiana importante che inevitabilmente sollecita urbanisti e urbaniste che erano presenti alla giornata di studio impegnati in vario modo e a vario titolo nel campo dell’urbanistica e della ricerca urbana.
Provo a rileggere le suggestioni e i molti temi emersi a partire da una chiave di lettura sulla quale sono impegnata da un po’. Io penso che a Venezia si sia parlato indirettamente del ruolo (e delle reponsabilità) dell’urbanistica e del governo urbano nei confronti di processi di esplusione urbana e di comportamenti predatori (quando non corrotti) di estrazione della rendita urbana. Intendo qui per rendita urbana sia la sua componenete materiale, la rendita immobliare urbana (si vedano Roberto Camagni e Walter Tocci su Eddyburg e i molti materiali della scuola di Eddyburg sulla rendita urbana disponibili sul sito), che la sua forma più effimera, simbolica, immateriale, legata a ciò che siamo disposti a pagare per godere di una esperienza urbana. Mentre la prima è fortemenete leggittimata da una cultura dello sviluppo che fa del territorio una moneta, di cui si è molto parlato sulle pagine di Eddyburg, la seconda è a mio parere più subdola ed è oggi fortemente legittimata dal discorso pubblico, da un insieme complesso di narrazioni, branding urbano e commercificazione (quando non reificazione) della vita urbana. Questa seconda forma di estrazione di valore dalla città è inoltre fortemente relazionata alla prima. Le prepara le premesse, costruisce un contesto favorevole agli investimenti, moralizza tutto ciò che non è conforme ad un apparato simbolico della classe media ( e delle elite urbane).
Per dirla in altri termini, perso che ciò di cui si è parlato, sebbene non si sia usato questo termine, abbia a che vedere con la gentrification nella sua forma più acuta e la rinuncia alla gestione delle esternalità negative che questo fenomeno comporta.
Per gentrification si intende una lenta e permanente esplusione degli abitanti di ceto popolare dalle aree urbane più centrali sostituiti da altri di ceto medio o da utilizzatori della città che però non vi risiedono stabilmente. Avviene in congiunzione con investimenti e politiche di sviluppo urbano più o meno esplicitamente orientate a questo fine. E’ dimostrato che con l’avanzare del tempo il fenomeno presta il fianco ad un comportamento predatorio e altamente speculativo di investimenti sempre più ingenti e che, di conseguenza, hanno aspettative di guadagno altrettanto ingenti, ai quale assistiamo inermi da diversi decenni. In Italia abbiamo inizialmente accolto il fenomeno positivamente perchè le sue fasi iniziali comportano investimenti nel patrimonio edilizio tutto sommato legittimi e perchè, ammettiamolo, siamo tutti parte della storia dell’evoluzione della città, siamo tutti un po’ ceto medio e siamo tutti più o meno corresponsabili di questo processo. Ci siamo così autoassolti, come urbanisti e come cittadini.
Nelle fasi più acute ed avanzate del fenomeno però, quelle di cui stiamo facendo diretta esperienza a suon di piani nazionali di alienazione del patrimonio e di un credo sconfinato nell’economia del simbolico che si nutre di città, il fenomeno è diventato più evidente fino a raggiungere l’opinione pubblica e ad essere finalmente percepito come un problema collettivo, quando non di vera e propria sopravvivenza delle communità urbane.
Oggi il fenomeno è oggetto di forte contestazione per esemio a Londra dove recentemente si è festeggiata la vittoria di una causa legale voluta dagli abitanti di Aylesbury Estate, un quartiere pubblico oggetto di un piano di rigenerazione (che prevede demolizione e ricostruzione) che ha comportato l’espulsione di centinaia di residenti.
Come effetto di questo evento, ma anche frutto di un inteso lavoro di ricercatori e attivisti, una interpretazione negativa del fenomeno di gentrification occupa quasi quotidianamanete le pagine del Guardian che ha dedicato una sessione plurilingue al tema “Cosa fa la tua città per contrasrare la Gentrification?”
La linea culturale anti-gentrification ha raggiunto anche il cuore dell’economia del simbolico, dell’esperenziale e della città creativa. Richard Florida accanito sostenitore della città creativa, bella, eccitante ma solo per chi se la può permettere che è stato interviatato ad un pubblico confronto con Loretta Lees, studiosa e promotrice di campagne anti-gentrification, a discutere del sul tema “Non sarà troppa questa gentrification per le nostre città? È governabile, si può fermare?”
Quello che è avvenuto a Venezia è in collegamento con tutto questo. E sebbene sia detto che la vita quotidiana a Venezia sia ormai irrimediabilmente compromessa, io penso che quella gironata ci ha fatto capire che, adifferenza di altri contesti, disponiamo di strumenti che ci permetterebbero di intervenire e di soggettività coscienti e movimenti sociali urbani che ce lo stanno chiedendo. Serve che l’opinione pubblica lo voglia davvero.
Oggi più che mai mi sembra che, come urbanisti e studiosi della questione urbana, dobbiamo essere più chiari, decisi e meno possibilisti nei confronti del fenomeno. L’urbanistica non può che essere una prassi anti-gentrification il che vuol dire una prassi di gestione della rendita.
La stagione progressista di governo della città di Venezia di cui Eddy e altri protagonisti tra i quali Vezio ci hanno parlato andava in questa direzione. Sena pretesa di asastività ecco cosa potrebbe fare l’urbanistica (con un set specifico di deleghe) oppure un buon sindaco capace di una visione olistica ed integrata del problema: si dovrebbe porre un freno ai cambi di destinazioni d’uso (per esempio da residenziale a turistico, o da residenziale ad uffici), tutelare il piccolo commercio di prossimità (artigiani locali e botteghe storiche) mediante l’intriduzione di codici etici che garantiscano la filiera di produzione delle merci; si dovrebbe poter disporre di strumenti negoziali per la riduzione/cancellazione di diritti edificatori assegnati in epoche di credo sconfinato nello sviluppismo edilizio in aree ad alta pressione speculativa (meno specifico per venezia ma cruciale per Roma e altre città), disegnare piani di sviluppo locale realmente partecipati che accolgano i termini del conflitto e le istanze espresse dalle soggettività attivamente impegnate in campagne anti-speculative; ipotizzare moratorie anti-sfratto per categorie vulnerabili ma anche in relazionate ai temi qui trattati che intervengano su centri storici e aree di ‘pregio’, vincolare spazi aperti, giardini, cortili e aree di archeologia industraile per il loro valore ambientale e assicurarsi che gli stessi possano ospitare usi conformi in primo luogo alle necessità delle popolazioni insediate, rimettere al centro del discorso urbanistico il tema della casa, anche e soprattutto in aree centrali e di pregio architettonico che devono poter essere accessibili anche ai ceti meno abbienti, gloccare i piani di vendita dell’edilidia residenzaile pubblica, riutilizzare il patrimonio disponibile per assorbire la domanda sociale di abitazioni e iscrivere questa pratica in una strutturale riforma della casa. Tutte cose che sappiamo fare e che spettano ad una nuova generazione di urbanisti, fortemente delegittimata e spesso e volentieri collusa con lo stato delle cose. Ci stiamo attrezzando e non possiamo che farlo a partire dalle esperienze di chi ci ha provato prima di noi. Per questo ti ringrazio per aver condiviso con generosità e memoria vivida di quegli anni, un esercizio tutt’altro che semplice.