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Enrico Bettini
Contro i principi a fondamento della ‘Riforma Lupi’
24 Agosto 2014
Legislazione nazionale
Pochi giorni fa. Il 17 di questo mese, cadeva il 72°anniversario della legge urbanistica nazionale. L’articolo che pubblichiamo, e di cui ringraziamo vivamente l’autore, ci aiuta a comprendere l’ampiezza degli spazi profondi che si sono aperti da allora a oggi, il disastro provocato dai provvedimenti legislativi preannunciati o già in atto, e la direzione lungo la quale è possibile lavorare per salvare il salvabile

La legge 1150, approvata in pieno svolgimento dell’ultima guerra e in pieno fascismo, è la “legge madre dell’urbanistica italiana” (Edoardo Salzano, urbanista). “Una buona legge, una legge moderna” ( Vezio De Lucia, urbanista). La legge 1150/1942 è un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio” (Gianni Lanzinger, giurista). In effetti, ha fornito il primo quadro complessivo e coerente per la pianificazione dal territorio comunale a quello –diremmo oggi- di ‘area vasta’.

Eppure, la relazione di Michele Martuscelli del 1966 (24 anni dopo) dovette occuparsi del più clamoroso esempio/scempio di speculazione edilizia sul territorio nazionale. Fu quello il segnale -tragico per il patrimonio paesaggistico di Agrigento- delle conseguenze del problema, rimasto irrisolto, dalla legge 1150, come ebbe a far notare (già allora) un fascista–critico come Bottai. Si tratta del problema, da settant’anni ben presente a tutti –urbanisti, politici, amministratori- della supposta esistenza del ‘diritto ad edificare’ connaturato a quello della proprietà privata dei suoli. Il tentativo illuminato di Sullo (antecedente all’immane catastrofe di Agrigento) e quello successivo di Bucalossi che, pur ispirandosi alla separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà ma rimasta mutilata e sostanzialmente ambigua, non hanno vinto contro l’uso indiscriminato del territorio come merce resa sempre più pregiata dalla sua edificabilità.

Proprio la legiferazione successiva alla 1150 (le leggi emergenziali -dimentiche dell’urbanistica- col pretesto della ricostruzione , la legge ‘ponte’, le leggi ‘tappo’, la stessa legge 10 del 1977) dimostrano, con tutta evidenza, che la mancata definizione legale dell’inesistenza di quel diritto privato a costruire, non potrà mai far recedere l’uso speculativo del bene collettivo costituito dal territorio. Tutti i tentativi, se non quello di togliere il territorio dal mercato, di ridimensionarne perlomeno l’abuso, non hanno sortito alcun effetto: si è garantito, grazie ad una edificazione senza limiti, l’incessante dilagare della cementificazione del suolo, associata al dissennato consumo e al gigantesco dissesto di tutto il territorio nazionale. La storia del ‘governo del territorio’ italiano dimostra questo, il risultato è questo, i fatti sono questi: finchè costruire sulla propria porzione di terra costituirà un diritto, ciò favorirà la commercializzazione dei terreni e i tentativi di espropriazione a fini sociali saranno sbarrati da altrettante sentenze legali per ‘manifesta’ illegalità.

La separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà era già stata proposta inizialmente (come ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa da buona parte della cultura urbanistica alla fine degli anni ‘60. Anche quando la politica (come in occasione della formazione del primo governo Moro) pare cogliere la necessità di recidere il nodo gordiano generatore della smisurata rendita fondiaria (concordando sulla preminenza dell'interesse pubblico attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie) viene contestualmente deciso di escludere il diritto di superficie. Inoltre (gennaio 1980), la Corte Costituzionale si pronuncia nuovamente sulla incostituzionalità della legge urbanistica a partire dall’istituto degli espropri per pubblici interventi. Nel frattempo, le neonate regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione e le norme contro l’abusivismo rimarranno inapplicate.

Da una legge di riforma attesa da settant’anni e dopo l’evidenza sopra richiamata, ci si sarebbe aspettato il classico rimedio, risolutivo – seppur tardivo - della vera causa della trasformazione del ‘giardino d’Europa’ nella nazione più dissipativa del privilegio delle sue bellezze naturali. Per questo, per la storia di disgregazione e di saccheggio urbanistico che abbiamo alle spalle, i primi ‘pilastri’ portanti di una nuova legge urbanistica nazionale avrebbero dovuto essere: la ripresa del coraggioso tentativo del 1962 contro lo jus aedificandi (Fiorentino Sullo, ex ministro DC degli anni ‘60) e il superamento delle tre sentenze della C. Cost. n. 55-56/1968, n.153/1977, n. 5/1980 (Paolo Maddalena, magistrato, ex membro della C. Cost.) perché in netto contrasto con l’art. 42 della stessa Costituzione che garantisce la proprietà privata a condizione però che ne sia assicurata “..la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Il terzo pilastro avrebbe dovuto essere la definitiva assunzione di responsabilità diretta sulla cessazione del consumo di suolo. Cessazione, non limitazione, perché siamo arrivati a questo punto: al punto di non poterne più consumare neanche un mq. L’abuso, la devastazione -testimoniatici dai periodici frane, smottamenti, crolli, alluvioni, interi paesi coperti di fango, stravolgimento di corsi d’acqua, distruzione di litorali, ecc. ecc. – impongono di adottare l’opzione zero: il divieto, senza deroghe ed eccezioni, a consumare altro suolo e quindi a costruire solo sul già costruito, a preservare anche le poche aree libere rimaste all’interno dell’abitato, nel rigoroso rispetto dell’invalicabilità della ‘cintura rossa’ (De Lucia) di confine tra città e campagna. Solo il divieto può essere efficace a tale scopo, solo il divieto può dichiararsi sostenibile. Ogni altro tipo di ostacolo continuerebbe ad essere aggirato e il consumo continuato.

Il quarto pilastro avrebbe dovuto essere l’altrettanto rigorosa osservanza , da imporre anche questa per legge, dell’art. 117,s della Costituzione (“tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali”) oltre che del suo art. 9. Occorre garantire al rispetto, alla salvaguardia e al ripristino del paesaggio – tramite imprescindibile prescrizione normativa e regolamentare- la priorità assoluta nell’iter di pianificazione e governo territoriali. I Piani Paesaggistici sono (devono essere) statutariamente sovra-ordinati a tutti gli altri Piani (da quelli regionali, di area vasta, a quelli metropolitani, di coordinamento, intercomunali, comunali, ecc.). Nella legge dovrebbe materializzarsi la precisa presa di coscienza del valore primario del paesaggio (rif. al “Codice”, 2004, e alla Conv. Europea sul P., 2000). Un valore che precede tutti gli altri perché la sua compromissione non è solo la rovina di un bene prezioso insostituibile, pone la prospettiva di una catastrofe economica e di civiltà. Di conseguenza, sarebbe bene conferire pieni poteri alle Commissioni comunali per il paesaggio in sostituzione di quelle igienico edilizie attuali.

Solo la chiara fissazione di questi presupposti –resi ineludibili quanto efficaci- priverebbe di ogni retorica il principio della sostenibilità ambientale ed economica più volte evocato nel testo della ‘Riforma Lupi’ e renderebbe meno aleatorie e scontate (quanto ininfluenti) le affermazioni in esso contenute: “..lo Stato, le Regioni e le Province autonome favoriscono..lo sviluppo economico sostenibile e la coesione sociale e territoriale..”, “..tenendo conto delle prospettive di sviluppo del territorio, delle sue peculiarità morfologiche, ambientali e paesaggistiche..”, “..assicurando il razionale uso del suolo..”, “..Lo Stato .. individua altresì le politiche generali in materia di tutela e valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio .. per lo sviluppo urbano sostenibile ..”, ecc.

Parole che risultano tutte vuote perchè i presupposti, gli irrinunciabili principi -e conseguenti obiettivi- della riforma proposta dal ministro Lupi sono altri: il garantismo -“..garantire il valore della proprietà.. “, rinnovato in senso più ‘liberista’, verso la proprietà privata (cui è interamente dedicato l’art. 8) già precisato nell’art. 1 e quello verso i diritti edificatori (cui è dedicato l’art. 12 e, in subordine, gli artt. 10, 11, 13 concernenti Perequazione, Compensazione e Premialità) non facendosi sfiorare dal dubbio che la proprietà privata è già garantita dalla Costituzione italiana (ma “..allo scopo di assicurane la funzione sociale..”) e che quelli edificatori non sono, non sono mai stati, dei diritti (“..Non c’è nessuna norma del C.C. ..che contempli questo supposto diritto a edificare come uno dei contenuti del diritto di proprietà privata..”, P. Maddalena, “il territorio bene comune degli italiani”, ed. Donzelli, 2014).

Decisamente diverso risulterebbe il governo del territorio secondo i pilastri più sopra da noi elencati, fondati sulla qualità ecologico-ambientale e sull’armonico, misurato, godimento del territorio come il primo dei beni di tutti (“primario” ed “assoluto”, C. Cost., 5 maggio 2006, nn. 182, 183):

- La riforma, organica e pervasiva, del governo su tutto il territorio nazionale, sarebbe rigorosamente fondata sulla precedenza da dare alla difesa e valorizzazione dei suoli e del paesaggio (e del loro ripristino); sarebbe di guida alla definizione di criteri di ricerca della qualità paesaggistica -territoriale e urbana- per la valutazione di qualunque proposta di intervento –comunque escludente consumo di suolo- in base agli obiettivi di qualità e convenienza pubblici.

- Si renderebbe necessaria una nuova ripartizione del territorio per il censimento dei diversi livelli di qualità dell’insediato (anche in relazione alle urbanizzazioni primarie e secondarie –servizi esistenti) condotto sulla base di standard di qualità ecologica-ambientale di superamento di quelli attuali e di profonda revisione dello strumento della VAS (Valutazione Ambientale Strategica) affinchè possa recuperare il suo ruolo di possibile contrasto attivo.

- La nuova ripartizione, con i suoi nuovi criteri di qualità, dovrebbe condurre a scenari di equità fiscale in campo urbanistico con il prioritario obiettivo del recupero della rendita fondiaria –da sempre sottratta alla collettività- affinchè sia socializzata e devoluta ad opere di miglioramento della qualità urbana stessa.

- Il perseguimento della qualità verrebbe attuato anche tramite strutture territoriali per favorire la partecipazione organizzata dell’utenza al controllo e al giudizio sugli interventi della modifica ambientale e del paesaggio (ri-orientamento degli Urban Center). A questo scopo, molta attenzione sarebbe dedicata alla divulgazione ed efficacia della comunicazione-formazione, anche tecnica, da più punti di vista e con la fornitura di più soluzioni. Solo con la corretta , larga informazione si garantirebbe il diritto di tutti , non solo di alcuni interessati al guadagno per sé di cui parla l’art. 1 (“.. la partecipazione dei privati [proprietari] anche nell’esecuzione dei programmi territoriali..).

Da queste prime linee guida (In buona misura, già presenti in leggi regionali approvate da tempo) potrebbe muovere un articolato che aggiorni efficacemente quello di settan’anni fa ma, sempre, “..funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo..”, com’era già nelle intenzioni di allora.

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