Il rumoroso rimbalzo dell’inchiesta “Swissleaks” condotta dal network di giornalismo investigativo internazionale Icij e, per l’Italia, dall’ Espresso, sui correntisti della filiale ginevrina della HSBC inclusi nella cosiddetta “lista Falciani” - 100 mila clienti (7 mila dei quali italiani) e 20 mila società off-shore per 180,6 miliardi di depositi - documenta la resa del Fisco e delle politiche anti-evasione del nostro Paese di fronte alla più colossale scoperta di fondi illegalmente trasferiti all’estero nella storia repubblicana.
La notizia, infatti, è che a distanza di 5 anni dalla consegna da parte della magistratura e del ministero delle Finanze francesi di 7 mila nomi alla nostra Guardia di Finanza e alla Procura della Repubblica di Torino, i soli italiani a “pagare” per intero il prezzo dell’evasione sono stati 190 (101 dei quali sono risultati evasori totali). Statisticamente un topolino, se paragonati ai 3.600 puniti dal Fisco inglese. Di più: si scopre che, in cinque anni, le verifiche non hanno superato le 3276 posizioni e, di queste, 1264 sono state “chiuse” con l’adesione allo scudo fiscale Tremonti del 2009. Il che, a conti fatti - almeno se si sta ai dati diffusi ieri con un comunicato dal Comando generale della Finanza - ha consentito di accertare «redditi non dichiarati per 741 milioni di euro, Iva dovuta e non versata per 4 milioni 520 mila euro» e di «riscuotere» 30 milioni di euro. Una miseria se paragonata al miliardo e 669 milioni di euro che è stato riportato in Italia dai conti ginevrini della Hsbc soltanto con lo scudo.
Né va meglio se dal terreno tributario ci si sposta su quello penale. Le indagini per reati tributari aperte da 120 procure della Repubblica (in ragione della diversa competenza territoriale) su quei 7 mila nomi, hanno portato a una valanga di archiviazioni per prescrizione. Tanto per dire, a Torino, su 250 nomi segnalati, c’è stata una sola richiesta di rinvio a giudizio, mentre le indagini ancora in corso riguardano meno di una decina di posizioni. A Roma, dove i nomi erano 800, le citazioni dirette a giudizio sono state tre. Perché, anche qui, la prescrizione prevista per i reati tributari (6 anni), ha fatto morire il processo prima ancora che cominciasse.
E tutto questo fino alla pietra tombale che - è questione ormai di meno di un mese - su tutta la vicenda metterà il famigerato decreto fiscale sulla cosiddetta “modica evasione” (sotto il 3% del dichiarato). Poiché, tra le altre norme contenute nel provvedimento ce n’è una che cancella la possibilità - che oggi esiste - di raddoppiare i termini di prescrizione per l’accertamento tributario (da 5 a 10 anni), qualora la persona soggetta a controlli sia stata denunciata penalmente. Le nuove norme obbligano infatti alla denuncia penale entro il termine ordinario della prescrizione tributaria (5 anni dalla presunta evasione). E, nel caso dei correntisti della “lista Falciani”, quel termine è abbondantemente scaduto nel 2013. Dunque, game over. Qualunque nuova informazione dovesse emergere di qui in avanti.
Come è stato possibile?
Per quanto ne riferiscono gli addetti - magistrati e fonti qualificate della Finanza che hanno lavorato al dossier - «la fine era scritta». La “lista Falciani” contiene infatti informazioni che, al più tardi, si riferiscono al 2008-2009 e per le quali, dunque, già al momento dello svelamento (è il 2010), la nostra giustizia penale e tributaria è costretta a correre contro il tempo. Quel che è peggio, tra il 2010 e il 2011, la magistratura svizzera nega per altro ogni forma di collaborazione all’allora Procuratore di Torino Giancarlo Caselli sui nomi e le movimentazioni dei conti HSBC eccependo che la “lista Falciani” è oggetto di un reato per la legge elvetica, trattandosi di «informazioni sottratte “fraudolentemente” al segreto bancario». Vengono dunque a mancare informazioni cruciali per ricostruire e contestare eventuali reati tributari. A Torino, come altrove.
Né va meglio all’accertamento fiscale. Perché, a dire degli inquirenti, dei 7 mila nomi iniziali dell’elenco, in almeno duemila casi «è impossibile un’identificazione certa dei correntisti o l’importo in giacenza dei conti». Non tutti insomma si chiamano Flavio Briatore, Valentino Rossi, o Valentino Garavani (per stare ad alcuni dei “vip” inclusi nella lista). E, in alcuni casi, anche quando il nome è pure certo e “vip” — come nel caso di Elisabetta Gregoraci, interrogata dalla Procura di Roma — si scopre che il conto svizzero era alimentato da assegni regolati dal suo contratto di matrimonio con Briatore e in quanto tali «non reddito imponibile».
La divisione territoriale degli accertamenti sui 5 mila nomi che sopravvivono alla prima “scrematura” fa il resto. Tra il 2011 e il 2014 il lavoro dell’Agenzia delle Entrate è affidato agli uffici periferici (tanto che, ad oggi, la direzione centrale non dispone di un dato aggregato e promette una “ricognizione” di qui alle prossime settimane). Mentre le diverse Procure, come detto, si devono arrendere alla prescrizione. Anche perché quando la Procura di Torino interroga finalmente Falciani (è il 2014) coltivando la speranza di poter far ripartire l’inchiesta, le informazioni di cui l’uomo dispone si rivelano identiche a quelle avute dai francesi nel 2010.