Era meraviglioso intatto paesaggio archeologico in un contesto di pianura agraria espanso fino all’arco della vicina costa sabbiosa dove sfocia il Sele, altrettanto incontaminato. Eppure Paestum diventaterà uno di quei luoghi che ci vietiamo a un futuro ritorno, tanto sono stati sconquassati da inconcepibili interventi al contorno, tanto sono cambiati così da cancellare, se non possiedi memoria sicura, l’immagine e il sentimento originari.
Al contrario, il giovane neolaureato in visita non trova scandaloso ciò che vede; non riesce a collegare l’eccellenza urbanistica e la perfezione architettonica dei tre templi a un’esigenza di insieme coerente, partecipe dell’unitaria bellezza di paesaggio e architettura. Paestum profanata è normalità, consuetudine. Il giovane non si smarrisce, non si inquieta. È abituato. Quand’era bambino il territorio italiano si presentava in condizione molto avanzata della propria distruzione. Nemmeno se lo incontrassimo ad Agrigento, il più spaventoso esempio di rovina in ogni senso - dalla città franata e peggio riassestata alla Valle dei Templi ripiena di obbrobri edilizi - avrebbe un moto di disgusto. Guarda tranquillo l’attualità per lui oggettiva e indiscutibile, né bella né brutta; nulla sa dei viaggiatori del XIX secolo che vedono «là giunti, l’immensa cerchia delle mura di Girgenti… e quasi tutto quel che resta dei monumenti antichi schierato sul bastione naturale che dà sul mare» (Alexis de Tocqueville, 1827) e non colgono alcuna discordanza nella musica del luogo. Potevano ammirare un paesaggio unico al mondo che opponeva equamente la ricca città greca morta alla povera città storica viva in uno scenario nel quale le due realtà del tutto diverse, a saper ascoltare, parevano dialogare.
Il nostro giovane è cieco e sordo, per lui va bene così. Anche se ha studiato, non distingue; dovrebbe gettar bombe contro questa verità menzognera, per così dire, invece non ne è minimamente infastidito. È talmente assuefatto ad aggirasi nel fango becketiano di città e territorio che trova naturale e godibile il fango agrigentino.
Esiste un peculiare silenzio giovanile entro il generale silenzio della popolazione dinanzi al sovvertimento dell’ambiente italiano; ininfluenti, eppur notevoli, le battagliere piccole minoranze che denunciano e protestano. I cittadini hanno apprezzato, spesso sospinto politici, amministratori pubblici, imprenditori, costruttori, progettisti che guidavano il caterpillar contro l’intero patrimonio di territori, città e monumenti che la storia sociale e materiale aveva assicurato. È vero che la gigantesca operazione (mistificata per sviluppo) a favore delle classi detentrici della rendita fondiaria e finanziaria ha concesso una modesta o ingannevole redistribuzione ad altre classi ma una formidabile funzione l’ha svolta il consumo inutile intimato alle masse. Il consumismo, assuefazione a una forma aberrante di consumo, unito all’impressionante mancanza di cultura crea la condizione disarmata per il consenso a ogni scelta dei poteri di cui sopra; nello stesso tempo il consenso incontrastato è causa del consumo acritico.
I giovani sono campioni in massa dell’acquisto esagerato di ogni cosa voluto dai padroni del mercato anche perché partecipi del consenso: più o meno convinto, forse soprattutto noncurante. Loro non hanno sospinto, hanno tranquillamente accettato la distruzione del Bel Paese. Invece i consumi di cose superflue o disperatamente nuove sono imposti a tutti, ma non si dice che i giovani le acquistano in maniera entusiasta ed eccitata, come in festa.
In una città come Milano, ricchi e pazzi per l’abbigliamento e per il divertimento leggero, spensierato, conformisti consumisti consenzienti ci appaiono questi giovani. Come potrebbero reggere le centinaia e centinaia di magazzini dallo specifico look giovanile che si inseguono l’uno dietro l’altro lungo le strade del centro storico, i grandi assi radiali e persino nella periferia storica, che si moltiplicano ogni giorno sulle ceneri di precedenti commerci privi dell’ultimissima merce omologata dal desiderio? Come in tanti spezzoni di città esclusivamente loro, questi tali giovani o giovani-maturi, dai tredici ai trentacinque anni, frequentano vedono comprano, ne parlano (le ragazze discorrono sempre di vestiti). Cosa sanno della ridotta città vera, che pur esiste ancora, o della metropoli discesa nel pozzo del puro gioco commerciale e finanziario dall’altezza delle proprie capacità di creare cultura oltre che merce-denaro? E le centinaia di locali creati apposta a Porta Ticinese e sui Navigli o in anfratti di semi-centro e vecchie periferie: come potrebbero vivere e riprodursi se non fossero totalmente disponibili quei destinatari tenuti a condiscendere, mai a contestare? se questi non avessero interiorizzato il modello comportamentale che unifica silenzio consumo consenso?
Articolo pubblicato anche in il Grandevetro n. 197, gennaio-febbraio 2010