il manifesto,
«Nel suo discorso del 10 ottobre, Puigdemont ha fatto un mezzo passo indietro. Darebbe prova di responsabilità Rajoy se facesse altrettanto. Dubito che lo faccia, ma sarei felice di sbagliare». A parlare è Alfonso Botti, storico, ispanista e firma nota ai lettori del manifesto. Docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è condirettore della rivista «Spagna contemporanea» e dal 2015 di «Modernism».
Si è occupato di nazionalismi e del rapporto tra cattolicesimo e modernità tra Otto e Novecento – Nazionalcattolicesimo e Spagna nuova, 1881-1975 (1992), La questione basca (2003), Storia della Spagna democratica (2006) con C. Adagio – facendo alcune incursioni nella storia politica spagnola più recente: Politics and Society in Contemporary Spain. From Zapatero to Rajoy (2013), curato con B.N. Field. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a dare una profondità storica a quanto sta accadendo oggi in Catalogna.
Partiamo dalla storia. Con l’avvento della Repubblica, la Catalogna e i Paesi baschi ottennero i loro primi Statuti di autonomia in una Spagna finalmente decentrata. Anche per questo i militari si sollevarono provocando quella guerra civile che spazzò via, con la democrazia, l’autogoverno catalano (e basco). Come è cambiata la questione dei nazionalismi periferici nel corso del Novecento?
«Vedo due costanti nell’evoluzione storica dei due nazionalismi: emergono (e riemergono) in concomitanza delle crisi economiche e si radicalizzano ogni qualvolta Madrid li reprime o respinge richieste di maggiore autonomia. Più forte dell’esplicita richiesta d’indipendenza è sempre stata la domanda di sovranità, cioè del diritto di decidere. Il quale, certo, è stato anche un’eufemistica copertura delle reali aspirazioni, ma lasciava aperta la strada a soluzioni di tipo federale. Aggiungo che non bisogna dimenticare che la Spagna (insieme al Portogallo) è l’unico paese europeo nel quale non sono sorti movimenti xenofobi e populisti di destra. Forse anche perché la presenza dei nazionalismi catalano e basco, entrambi fortemente europeisti, ha agito da deterrente».
Quali sono state le trasformazioni nella composizione politica e sociale del movimento indipendentista catalano?
»A differenza di quello basco (che nacque cattolico integralista e si democratizzò dalla metà degli anni Trenta), il nazionalismo catalano è stato ideologicamente più articolato e punto di confluenza di repubblicani, federalisti, moderati, cattolici democratici e conservatori. Storicamente vi si avverte l’egemonia di una parte della borghesia catalana, con innervature popolari. La novità degli ultimi anni è la forte presenza giovanile, per la quale – sintetizzando – direi che la nazione ha funto da rifugio alla crisi dei progetti fondati sulla classe».
Si può parlare anche di una ripresa di un «nazionalismo spagnolo»? In che modo le vicende catalane degli ultimi anni hanno modificato l’identità nazionale a pochi anni dal lancio del progetto di Zapatero di una «Spagna plurale»?
«Dietro il «patriottismo della Costituzione» ha senz’altro ripreso vigore il vecchio nazionalismo spagnolo, che tuttavia in questo modo sembra prendere le distanze dalla visione centralista tipica della destra spagnola. Con Zapatero era riaffiorata una sensibilità storicamente presente nella tradizione socialista: quella disponibile a discutere un nuovo modello di paese, fondato su una pluralità di nazioni e magari su un federalismo asimmetrico. Problema complesso e di difficile soluzione, ma che almeno Zapatero aveva colto come urgente, facendo sì che il nuovo Statuto catalano, che conteneva la controversa definizione della Catalogna come nazione, fosse approvato dalle Cortes nel 2006. I popolari di Rajoy ricorsero al Tribunale costituzionale, con le conseguenze che ora abbiamo davanti agli occhi.
Centinaia di sacerdoti catalani si sono schierati a favore del referendum, i loro vescovi hanno invitato al dialogo».
Come interpretare il ruolo della Chiesa spagnola in questa fase e anche in relazione alla sua storia?
«Sulla questione nazionale la faglia che divide la società spagnola e catalana attraversa anche la Chiesa da oltre un secolo. Negli ultimi mesi ho studiato sui documenti dell’Archivio Segreto Vaticano l’atteggiamento della S. Sede di fronte ai nazionalismi catalano e basco, costantemente alla ricerca di quella legittimazione che da Roma non ebbero mai. Anzi, la S. Sede stigmatizzò a più riprese il clero nazionalista perché faceva politica, come se quello spagnolista non facesse altrettanto».
La linea di Podemos e quella dei socialisti. Quale percorso alle spalle? E oggi in che modo l’esplosione della questione indipendentista interroga questi due soggetti e, più in generale, le diverse sinistre spagnole?
«Durante la lotta antifranchista socialisti e comunisti sostennero il principio dell’autodeterminazione di catalani e baschi. Morto Franco, cambiarono bruscamente posizione e con la Costituzione del 1978 pensarono di aver trovato la quadratura del cerchio. Podemos e l’area post-comunista si collocano nel solco di quella tradizione, il PSOE forse vorrebbe, ma non può. La vecchia guardia dei Felipe González, Alfonso Guerra e il socialismo andaluso di Susana Díaz tengono in ostaggio Pedro Sánchez. Voglio essere chiaro: a mio avviso non è di sinistra essere nazionalisti, mettere mano alla Costituzione sì».
Quali sarebbero le conseguenze di una secessione per i settori sociali subalterni?
«Le classi popolari hanno pagato i tagli alla spesa pubblica voluti da Artur Mas. Per questo la CUP ha imposto la sua sostituzione alla guida della Generalitat. L’indipendentismo catalano nasconde le proprie profonde divisioni dietro la bandiera della secessione, ma disegnando uno scenario del tutto virtuale non potrebbe governare una Catalogna indipendente. La CUP pensa che l’indipendenza favorirà i lavoratori. Fa venire in mente quel socialismo che nel 1914 pensò che la guerra avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione in Europa. Sappiamo tutti cosa venne dopo».
C’è chi ha osservato che non è più possibile contestare il governo centrale senza essere etichettati come indipendentisti e viceversa per quanto riguarda le critiche all’indipendentismo. Quali conseguenze hanno avuto le vicende degli ultimi mesi sulla tenuta del sistema democratico? Si può parlare di un pericolo di “semplificazione” del dibattito politico spagnolo?
«Siamo di fronte alla più grave crisi istituzionale, politica e sociale dal ritorno della democrazia in Spagna. L’attuale polarizzazione delle posizioni cancella le sfumature e con esse la politica nella sua accezione più alta. Lo avverto nelle posizioni dei tanti amici e colleghi catalani e spagnoli con i quali sono in contatto quotidiano. C’è solo da sperare che il sussulto di sensatezza che ha attraversato nei giorni scorsi la Spagna all’insegna del parlem si estenda. Le centinaia di migliaia di catalani andati alle urne configurano un fenomeno di disubbedienza civile, pacifica e di massa che un governo democratico dovrebbe saper leggere e considerare come problema politico a cui dare risposta».