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Bernardo Valli
Con gli immigrati rinasce il neorealismo
14 Dicembre 2007
Recensioni e segnalazioni
Una bella recensione di un bellissimo film. Prossimamente anche in Italia. Da la Repubblica del 14 dicembre 2007

È semplice la storia di La graine et le mulet (La semola e il cefalo, ingredienti di base del cous cous tunisino al pesce): è quella di una famiglia numerosa, pettegola, rumorosa, scombinata, come può esserlo una famiglia mediterranea. E qui la mediterraneità è duplice: magrebina e francese del Midi. Siamo in terra d’immigrazione a due passi da Marsiglia. La famiglia è divisa, rissosa nel quotidiano, dal risveglio al tramonto, ma compatta, solidale quando l’esistenza si fa difficile. È una virtù del Sud. E in quel Sud bastardo, elettrizzato dal mistrale e non infiacchito dallo scirocco, sono le donne, siano mogli, figlie, sorelle, amanti, a tenere unita la tribù. Sono loro i pilastri. Sottomesse? Neanche per sogno. Non presiedono ma comandano.

Approdato sulle spiagge europee l’Islam perde il vizio? Lasciamo stare, qui lo scontro di civiltà non c’entra. L’Islam non c’è in questa storia di cous cous, della quale sono protagonisti dei magrebini diventati francesi, senza pensare troppo a Maometto e a Voltaire. Le donne guidano la famiglia perché sono più solide. Hanno sguardi di fuoco e lingue biforcute. I loro insulti sono frustate che non lasciano il segno. Le loro risate aprono il cuore. Gli uomini giovani, baldanzosi, corvini rincorrono spavaldi le bionde, ma quando sono scoperti dalle spose grondanti figli chinano il capo contriti e ammansiti. L’indulgenza non tarda mai troppo. Quella per il capo famiglia è tuttavia speciale, unica. Non si interrompe mai.

Ingrigito, stanco, ormai condannato alla disoccupazione e quindi alla pensione, il vecchio incute sempre rispetto. È comunque l’eroe, anche se dell’anti-eroismo. Egli è due volte fedele e lo resta fino alla morte. È fedele alla sposa legittima e all’amante legittimata dagli anni di convivenza appartata.

Che fare di questa storia semplice, anzi banale, tradizionale dall’inizio alla fine, fin nelle pieghe più intime? Una storia ricca di luoghi comuni, senza ammazzamenti e tradimenti biblici. Con poche passioni amorose. Senza drammi sociali gridati e discriminazioni xenofobe da manuale razzista.

Quindi una storia che non suscita indignazione, né altri sentimenti politicamente corretti. Che fare di così poca cosa? Abdellatif Kechiche ha compiuto l’impresa riservata ai maestri della letteratura e dell’arte: da una vicenda piatta ha saputo trarre un’opera epica. Quel che messo in mano a un narratore qualunque avrebbe fatto sbadigliare, è servito al regista franco-tunisino per realizzare un film in cui, è stato giustamente detto: il romanzesco si mischia alla cronaca sociale, la commedia al melodramma, la triviale banalità del quotidiano alla grandezza della tragedia.

È difficile non vedere in questo film datato 2007 un discendente del nostro neorealismo, in una versione a colori. I critici francesi più attenti hanno riconosciuto questa affiliazione. Ma va aggiunto che il parlato, il torrente, il fiume di parole che percorre, spesso sommerge, le due ore e mezzo di filmato, ha un accento particolare. È di per sé un capolavoro. È il linguaggio vivo, polposo, dei magrebini convertiti al francese, che dà accenti dialettali, crepitanti come fuochi d’artificio, a una lingua (mi perdonino gli Accademici di Francia) che aveva bisogno di un ricostituente, più efficace, più genuino degli abituali anglicismi. È una necessità sentita in altre contrade linguistiche della vecchia Europa.

Senza quel linguaggio carnoso, che sgorga come una massa d’acqua da una diga sventrata, in cui un complimento può suonare come un insulto e viceversa, il film rischia di perdere molto. Moltissimo. Penso al doppiaggio italiano. E a questo punto va attribuito a La semola e il cefalo (il titolo italiano, a gennaio, sarà Cous Cous) un ulteriore valore. Il film (insieme a quelli precedenti di Kechiche: La faute à Voltaire e L’Esquive) annuncia quella che è, e sarà sempre più, una nuova cultura: la cultura scaturita dall’innesto dell’immigrazione di origine extraeuropea sulle nostre esangui società. Ho già detto del quadro familiare in cui avviene l’epica, neorealistica, storia del cous cous. Ed ecco adesso la trama, riassumibile in poche parole. Per interpretare il ruolo principale, quello di Slimane, anziano operaio in un cantiere navale del Sud della Francia, Abdellatif Kechiche ha scelto un vero operaio, Habib Boufares, amico di suo padre defunto. Quasi tutti sono attori improvvisati. Il protagonista, Slimane, viene licenziato perché la sua produttività è ormai scarsa. Ha troppi anni e costa troppo, ha acquisito troppi diritti. I nuovi arrivati dall’Europa Orientale sono «più interessanti» per i datori di lavoro.

Separato dalla moglie e dai figli, Slimane vive all’Hotel de L’Orient, di cui è proprietaria l’amante. Ed è in quella pensione per immigrati che decide di tentare la fortuna. Dalla carcassa arrugginita di una vecchia nave in disarmo vuole fare un ristorante specializzato in cous cous. er questo mobilita le sue due famiglie rivali. La moglie, interpretata dalla madre dell’assistente cameraman, sarà l’energica cuoca dal cuore d’oro. Ma anche la famiglia dell’amante avrà un ruolo determinante. In particolare l’avrà la bella Rym, appunto figlia dell’amante, che per intrattenere i clienti, irritati dal ritardo del cous cous, farà un’interminabile danza del ventre, in egual misura drammatica ed erotica. Rym è una splendida attrice. Si chiama Hafsia Herzi e il regista l’ha incontrata a Marsiglia, quando ormai dubitava di poter trovare la ragazza che aveva sognato per il ruolo di Rym.

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