Il manifesto, 28 febbraio 2015
Le cose non sono affatto facili per Alexis Tsipras, promotore di un piano anti-austerity che mette in dubbio le fondamenta dell’Europa neoliberale. Il fatto che il negoziato all’Eurogruppo si sia concluso con l’approvazione dell’elenco delle riforme non vuol dire che la tensione ad Atene sia calata. Anzi, dopo l’ottimismo dei primi giorni il clima si fa pesante e tra oggi e domani si aspetta un dibattito acceso alla riunione del comitato centrale di Syriza.
Il premier deve fare i conti non solo con i problemi di liquidità già presenti nelle finanze dello stato, i ricatti dei partner europei e le critiche da parte dei conservatori, socialisti, comunisti del Kke compresi, ma deve confrontarsi con il suo alter-ego: le sue promesse durante la campagna elettorale, i suoi compagni all’ interno del Syriza secondo i quali l’ austerity avrebbe dovuto finire il giorno dopo le elezioni.
L’aveva promesso pure Tsipras un anno fa. Voci che si moltiplicano giorno dopo giorno per esprimere il loro dissenso all’accordo di Bruxelles, nonostante il governo continui a raccogliere il sostegno della stragrande maggioranza dei greci (oltre l’ 80%).
Alexis Tsipras per evitare che il suo esecutivo sia una «parentesi di sinistra», come vorrebbero i suoi avversari a Bruxelles e ad Atene, e per guadagnare tempo ha preferito la svolta. Che sia una «retromarcia di destra» oppure solo realismo ha poca importanza per un semplice motivo. L’ alternativa sarebbe uno scontro frontale ancora più duro tra il neo governo e i creditori internazionali, la chiusura dei rubinetti dalla Bce, il default, ovvero il tracollo finanziario, l’ uscita obbligata del Paese dalla zona euro.
Una situazione che sempre ha provocato un dibattito acceso in Syriza come alternativa per sganciarsi dalla taneglia del debito pubblico e dai creditori, ma che oggi esprime una minoranza. Il programma della sinistra radicale greca è chiaro: combattere per un cambiamento all’ interno dell’ eurozona.
Alexis Tsipras ha ottenuto un difficile equilibrio tra le richieste dei creditori internazionali e il suo piano anti-austerity; tra la necessità di retrocedere momentaneamente, accettando parte del programma precedente e il bisogno di affrontare la crisi umanitaria, riavviare l’economia e promuovere la giustizia fiscale, riconquistare l’occupazione, trasformare il sistema politico per rafforzare la democrazia.
Ora facendo un resoconto all’ interno della sinistra radicale, dopo l’ accordo di Bruxelles, questo equilibrio non piace. Non piace - si sapeva a priori - al potente Aristero Revma (Corrente di sinistra) o Aristeri Platforma (Piattaforma di sinistra) che ha caraterizzato il piano approvato dall’Eurogruppo «un accordo indovinello». Non piace all’eurodeputato del Syriza, Manolis Glezos, figura emblematica e simbolo della resistenza greca contro l’ occupazione nazista. Le parole di Glezos sono state paragonate con una bomba alle fondamenta del neo governo Syriza-Anel, un attacco personale contro Alexis Tsipras. «L’accordo all’ Eurogruppo é una vergogna» ha scritto il 91enne Glezos al suo blog. E poi ha chiesto «scusa al popolo greco».
La riunione del gruppo parlamentare di Syriza di giovedì è durata dieci ore. Una maratone durante la quale il premier ha chiesto ai parlamentari di esprimersi apertamente sul contenuto dell’ accordo e di votare per alzata di mano. «Il risultato dell’accordo dipenderà e sarà giudicato dal modo in cui lavoreremo come governo» ha detto Tsipras.
Niente da fare. Le anime non si calmano, i dissaccordi rimangono, i dissidenti insistono. Il ministro della Ricostruzione e dell’ Ambiente, Panagiotis Lafazanis e la presidente della Camera, Zoe Konstantopoulou, ambedue esponenti della «Corrente di sinistra» hanno detto che l’accordo è, in sostanza, un’estensione del pre-esistente memorandum (stessa critica è stata mossa anche da Nea Dimokratia). Contrari anche ex socialisti, come il professore del Diritto di lavoro, Alexis Mitropoulos, esponente di spicco di Syriza. Alla fine la votazione: 20 (secondo altri più di 30) deputati sui 149 avrebbero votato contro o scheda bianca all’ accordo di Bruxelles, mentre un numero maggiore sarebbe contrario a presentare tale proposta in parlamento per la ratifica come invece chiede da giorni l’opposizione. E la domanda che ci si pone è «come un ministro (Lafazanis) contrario all’accordo di Bruxelles applicherà il suo contenuto?».
Come se non bastasse tutto questo, giovedì in un documento reso pubblico il professore di economia, Yannis Milios, responsabile tuttora della politica economica del Syriza, e altri due dirigenti del partito, criticano aspramente l’operato del ministro delle finanze Yanis Varoufakis. Lo scontro ideologico tra un dirigente considerato marxista e il ministro dichiaratamente marxista, ma di tendenza keynsiana, è evidente. L’accordo di Bruxelles si riferisce ai «controlli da parte dei creditori internazionali, e non ad uno scambio di valutazioni sull’ andamento dell’economia greca… accetta gli aiuti economici del precedente accordo, non fa riferimento alla ristrutturazione del debito pubblico, ma parla di un programma di sostenibilità… non garantisce la liquidità delle finanze» e tutto sommato «poco ricorda ciò che Syriza prometeva prima del voto del 25 gennaio».
Le trattative da parte del governo greco erano «un salto a occhi chiusi», «non c’era un piano ben preciso”, l’accordo «offre tempo ad Atene, ma la scena è soffocante» conclude Milios.
Mancanza di esperienza di governo da parte della sinistra greca? Atteggiamento suicida, lotta continua oppure spirito autocritico affinché si vada avanti? Il realismo politico del premier greco, espresso dopo l’estate scorsa e la trasformazione rapida della sinistra radicale in una forza governativa che deve gestire la realtà, in fondo non è mai piaciuto a quelle correnti, comuniste e non, in seno al partito, che preferirebbero Syriza al 4%, ma «pura e rivoluzionaria».
Non a caso nessuno tra quelli che criticano l’ operato di Tsipras e di Varoufakis dicono cosa avrebbero fatto se fossero presenti loro alle trattative con i «18» dell’eurozona.
Lo scontro sarebbe ancora più forte, la rottura con i partner europei immediata, il ritorno alla dracma sembrerebbe quasi l’unica alternativa per un Paese che continua a produrre poco. Uno scenario che ancora non viene escluso del tutto.