Abbiamo scelto due commenti tra i tanti dopo la condanna penale (quella morale e quella politica seguono altre vie) dell'uomo che s'impadronì dell'Italia per i suoi interessi: Norma Rangeri dal
manifesto ed Ezio Mauro da la Repubblica, entrambi del 25 maggio 2013
il manifesto
Onestamente, i magistrati non hanno dovuto faticare molto. Non ci volevano due anni e 50 udienze per giudicare ridicola la balla della nipote di Mubarak, per valutare il comportamento gravemente concussivo di un presidente del consiglio che in piena notte, dal vertice internazionale di Parigi, telefona sei volte alla questura di Milano per sollecitare il trasferimento di una ragazza minorenne, sua ospite nelle notti di Arcore, nelle mani della maestra di burlesque, alias la consigliera regionale Nicole Minetti. Del resto né l'imputato eccellente, né i suoi difensori avevano negato le telefonate incriminate. Dunque bisognava solo dimostrare di non credere alla favola dell'incidente diplomatico con il rais egiziano.
Né bisognava essere menti raffinate per svelare "un sistema prostitutivo", maldestramente camuffato dalla trovata delle cene eleganti, alimentato da carovane di ragazze stipate nel falansterio di via Olgettina, foraggiate da fiumi di denaro. Un traffico di carne fresca così intenso e sfibrante da far sbottare una amica del Cavaliere come l'onorevole Maria Rosaria Rossi con la frase fatidica che poi darà il titolo alla saga («...allora stasera bunga bunga...mi tocca vestirmi da femmina...»).
Questa condanna a sette anni con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici è una sentenza severa, che chiama in causa i funzionari della questura di Milano, le "olgettine", fino al musico di corte Apicella. I giudici hanno smontato, una dopo l'altra, le fantasiose ricostruzioni difensive dell'onorevole Ghedini. E il macigno del giudizio penale del processo Ruby si aggiunge alla condanna a quattro anni sui diritti Mediaset, con Berlusconi giudicato colpevole di una "colossale" evasione fiscale, come è scritto nella sentenza, questa volta di secondo grado dunque senza possibilità di appello per il merito dell'indagine.
Il caso ha voluto che nella stessa giornata la ministra Josefa Idem, per una vicenda di Ici non pagata per intero, fosse chiamata a renderne conto pubblicamente e poi invitata a dimettersi. Scegliendo di lasciare ha dato il buon esempio a una classe politica di pluricondannati incollati alla cadrega. E tanto più sono apprezzabili le dimissioni di Idem, quanto più fanno risaltare la differenza tra chi ha rispetto di se stesso e degli elettori e chi, invece, insiste a recitare la gag del perseguitato. Sono due facce della stessa medaglia: pulita quella della ministra per le pari opportunità, moneta di scambio quella dell'ex presidente del consiglio che non molla neppure di fronte alle accuse più infamanti.
Le verità giudiziarie svelano la natura criminale di un'anomalia politica che, sotto il mantello del conflitto di interessi, ha segnato e continua a connotare la vicenda italiana degli ultimi decenni. Una leadership sfigurata che in qualunque angolo del mondo avrebbe lasciato il campo, e che, al contrario, nonostante le condanne del tribunale e la sonora, doppia sconfitta elettorale (ratificata dai ballottaggi siciliani), torna invece a dettare l'agenda nella surreale cornice delle larghe intese.
Un'Italia compiacente e intimidita si chiede che cosa succederà adesso, dopo la sentenza sul caso Ruby del Tribunale di Milano che condanna in primo grado Silvio Berlusconi a sette anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuno si pone la vera domanda: cos’è successo prima, per arrivare ad una sentenza di questo genere? Cos’è accaduto davvero negli ultimi vent’anni in questo sciagurato Paese, nell’ombra di un potere smisurato e fuori da ogni controllo, che concepiva se stesso come onnipotente ed eterno? E com’è potuto accadere, tutto ciò, in mezzo all’Europa e agli anni Duemila?
La condanna sanziona infatti due reati molto gravi — concussione e prostituzione minorile — sulla base del codice penale, dopo un processo di due anni e due mesi, con più di 50 pubbliche udienze. L’accusa ha dunque avuto ragione, vedendo un comportamento criminale nel tentativo di Silvio Berlusconi di sottrarre una minorenne accusata di furto al controllo della Questura, imponendo ai funzionari la sua autorità di presidente del Consiglio, addirittura con l’invenzione di uno scandalo internazionale, perché Ruby era «la nipote di Mubarak».
La difesa sostiene che non ci sono vittime per i reati ipotizzati, non ci sono prove e c’è al contrario la criminalizzazione di uno stile di vita e di comportamenti privati (le cosiddette “cene eleganti”), distorti da una visione voyeuristica e moralista che li ha abusivamente trasformati in crimine, fino alla sanzione di un Tribunale prevenuto, anche perché composto da tre donne.
Io credo in realtà che ci sia un metro di giudizio che viene prima della condanna e non ha nulla a che fare con il moralismo. Si basa su due elementi che Giuseppe D’Avanzo quando rivelò questo scandalo richiamò più volte — da solo e ostinatamente — sulle pagine di Repubblica. Sono la dismisura e l’abuso di potere. Di questo si tratta, e cioè di due categorie politiche, pubbliche, e impongono un giudizio politico per un leader politico che nel periodo in cui è scoppiato il caso Ruby aveva anche una responsabilità istituzionale di primissimo piano, come capo del governo italiano. «La questione — scriveva D’Avanzo — non ha nulla a che fare con il giudizio morale, bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni», perché tutto ciò «rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili».
La dismisura dunque come cifra dell’eccesso di comando, grado supremo della sovranità carismatica, con il voto che cancella ogni macchia e supera ogni limite, rendendo inutile ogni domanda, qualsiasi dubbio, qualunque dovere di rendiconto. E l’abuso di potere come forma politica di quella sovranità sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Perché nel sistema berlusconiano, dice D’Avanzo, «il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con l’intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell’Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Nell’infelice Italia invece l’abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica».
Questo è ciò che ci interessa. Il disvelamento clamoroso di comportamenti privati di un uomo politico che imbarazzano le istituzioni e addirittura le espongono al ricatto, e spingono quel leader ad alzare la posta dell’abuso, imprigionandosi ogni volta di più in una rete di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi: fino al momento in cui si avvera la profezia di Veronica Lario sul «ciarpame senza pudore» delle «vergini offerte al Drago», si costruisce un castello di menzogne sui rapporti con la minorenne Noemi, si soffoca nel taglieggiamento incrociato dei profittatori e mezzani Lavitola e Tarantini, e infine si inciampa nel codice penale sul caso Ruby, perché qualcosa di inconfessabile spinge il premier a strappare quella ragazza dalla Questura, affidandola ad una vedette del bunga-bunga spacciata per “consigliere ministeriale”, per scaricarla subito dopo da una prostituta brasiliana.
Si capisce che questo processo milanese, costruito sull’inchiesta di Ilda Boccassini, sia stato vissuto da Berlusconi come la madre di tutte le accuse. L’ex premier nei due anni del dibattimento ha potuto giocare tutte le carte della sua difesa, compreso lo straordinario peso mediatico di un leader politico che ha invocato “legittimi impedimenti” ogni volta che ha potuto spostando ad hoc persino le sedute del Consiglio dei ministri, e ha addirittura imbastito due serate di gran teatro televisivo (una prima della requisitoria, l’altra prima della sentenza) sulle reti di sua proprietà con una sceneggiatura che sembrava anch’essa di sua proprietà, per parlare direttamente alla pubblica opinione sanzionando in anticipo la propria innocenza.
Questo “concerto” aveva da qualche mese una musica di fondo la “pacificazione”, che è il concetto in cui l’egemonia culturale berlusconiana tenta di trasformare la ragione sociale del governo Letta, nato dall’emergenza e dalla necessità, e dunque senza radice e cultura ideologica, com’è naturale per un esecutivo che tiene insieme per un breve periodo gli opposti, cioè destra e sinistra. Questa necessità, e questa urgenza, per il Pdl e per i suoi cantori sono diventate invece qualcosa di diverso, quella “pacificazione” che dovrebbe chiudere i conti con il passato, sacralizzare Berlusconi come punto di riferimento istituzionale del nuovo quadro politico e del nuovo clima, farlo senatore a vita o vertice di un’improvvisata Costituente, in modo da garantirgli un salvacondotto definitivo.
Praticamente, è la proposta di prendere atto che lo scontro tra la legalità delle norme e delle regole e la legittimità berlusconiana derivata dal voto popolare sta sfibrando il sistema senza un esito possibile. Dunque il sistema costituzionalizzi l’anomalia berlusconiana (reati, conflitti d’interesse, leggi ad personam, strapotere economico e mediatico) e la introietti: ne risulterà sfigurato ma infine pacificato — appunto — perché nel nuovo ordine tutto troverà una sua deforme coerenza.
L’egemonia culturale crea senso comune, che in Italia si spaccia per buon senso. E dunque la destra pensava che il “clima” avrebbe prima addomesticato la Consulta, chiamata alla pronuncia definitiva sul legittimo impedimento che avrebbe ucciso il processo Mediaset, dove l’ex premier è già stato condannato a quattro anni. Poi l’“atmosfera” avrebbe dovuto contagiare il Tribunale di Milano, già avvertito fisicamente del cambio di clima dalla manifestazione dei parlamentari Pdl sul suo piazzale e nei corridoi. Infine la “pacificazione” dovrebbe salire le scale della Cassazione, per il giudizio Mediaset, sfiorare il Colle che ieri Brunetta chiamava in causa dopo aver definito la sentenza «atto eversivo», bussare alla porta di Enrico Letta (che ha già detto di no) e soprattutto del Parlamento, visti i tanti vagoni fantasma che aspettano nell’ombra delle stazioni morte il treno del decreto svuota-carceri, pronti ad assaltarlo con il loro carico di misure salva-premier, dalle norme sull’interdizione dai pubblici uffici fino all’amnistia, generosamente suggerita dai montiani. Il disegno berlusconiano prevede colpi di mano e maggioranze estemporanee, col concorso magari di quei parlamentari cannibali del Pd che nel voto segreto hanno già dimostrato di essere buoni a nulla e capaci di tutto.
Da ieri tutto questo è più difficile. La Consulta ha fatto il suo dovere, ricevendo in cambio accuse vergognose. E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo - che è il risultato più importante - assicurando giustizia e uguaglianza del trattamento dei cittadini davanti alla legge nonostante le intimidazioni preventive. Nella sentenza c’è un giudizio di condanna durissimo, per due reati molto gravi, soprattutto per un uomo di Stato che ha rappresentato le istituzioni. Non solo: il Tribunale ha trasmesso gli atti che riguardano 32 testimoni alla Procura, perché valuti se hanno reso falsa testimonianza in dibattimento. Sono ragazze “olgettine”, a libro paga del Cavaliere, amici suoi e stretti collaboratori, funzionari della Questura come Giorgia Iafrate. Con questa decisione, il Tribunale sembra convinto di aver individuato una vera e propria rete di organizzazione della falsa testimonianza di gruppo. Sarà la Procura a valutare se è così e chi è l’organizzatore, mentre è già chiaro che il beneficiario è Berlusconi. L’influenza economica, l’abuso di potere potrebbero arrivare fin qui.
Restano le conseguenze politiche. La più netta, la più chiara, sarebbe il ritiro di Berlusconi dalla politica, come accadrebbe dovunque. Ma in Italia non accadrà. La politica è il vero scudo del Cavaliere. E il governo, con la sua maggioranza di contraddizione, è l’ultimo tavolo dove cercherà di trattare, assicurando qualsiasi cosa (la durata dell’esecutivo fino alla fine della legislatura, la personale rinuncia a candidarsi alla Premiership) in cambio di un aiuto sottobanco. Altrimenti, salterà il banco, e dopo la breve parentesi da statista, il Cavaliere tornerà in piazza, incendiandola. Perché il populismo ha questa concezione dello Stato: o lo si comanda o lo si combatte, nient’altro.