E’ inutile offendersi per le parolacce degli altri se ogni volta che mettiamo piede nella politica La Repubblica, 12 febbraio 2014 La Repubblica, 12 febbraio 2014
SIAMO scesi proprio in basso, se un vicesegretario di Stato americano, Victoria Nuland, programma la caduta del governo ucraino con il proprio ambasciatore a Kiev e parlando dell’Unione dice, con l’arroganza d’un capo-mandamento a caccia di zone d’influenza: «Che l’Europa si fotta! » («...and you know, fuck the EU»). Già c’era stata, in ottobre, la storia avvilente di Angela Merkel spiata da Washington, tramite controllo del cellulare. Non un incidente di percorso, se pochi mesi dopo l’Europa è declassata così radicalmente dal lessico della Nuland, perché sospettata di troppa prudenza sul regime change ai propri confini.
Simile degenerazione è tuttavia un utile momento di verità. La risposta meno feconda è quella di chi, sgomento, s’offende per le male parole. Lo scontro come momento di verità, di svolta, obbliga invece gli Europei a guardare se stessi, l’occhio non fisso sull’America ma sulle proprie azioni e omissioni che spiegano tanto precipizio. Li costringe a scoprire l’inconsistenza, la vista corta, il grande inganno d’una presenza il più delle volte fittizia nel mondo, ignara delle sue mutazioni, fatta spesso solo di retorica, al rimorchio di un’America sempre più nazionalista, che non riconosce leggi sopra le proprie.
Il dopo-guerra fredda ci lascia in perenne stato d’impotenza, stupore e dipendenza. In questo mondo che cambia non siamo entrati, né come Stati e ancor meno come Unione che agisce in proprio. Non abbiamo una politica estera nemmeno per quanto riguarda la nostra area di frontiera - l’«estero vicino», come viene chiamato in Russia - né a Est della Polonia né a Sud nel Mediterraneo. E quando vogliamo esser presenti, come in Ucraina, applichiamo senza molto pensarci gli schemi neocoloniali adottati nel dopo guerra fredda. Crediamo di pesare se sappiamo imporre cambi di regime: un’esercitazione quasi fine a se stessa, completamente disinteressata alla storia dei paesi di cui pretendiamo occuparci. Appoggiamo questa o quella forza a noi vicina, e sistematicamente sbagliamo alleati. È già avvenuto in Iraq, Libia, Siria. Alberto Negri ha spiegato bene quest’incapacità congenita ad assumersi il rischio che consiste nel fare politica, dunque nell’imparare dai propri errori: «Un po’ di esercizio di memoria, magari tornando agli sviluppi tragici dei Balcani negli anni ’90, dovrebbe suggerire anche la situazione in Ucraina: l’Europa troppo spesso applaude incondizionatamente le rivolte popolari che hanno un sapore democratico e libertario per poi fare da spettatrice muta e inefficace davanti a sanguinosi sviluppi. Non è forse andata in questo modo anche in Siria?» ( Sole 24 ore, 25-1-14).
L’Ucraina è emblematica perché il modello sembra ripetersi. È lo schema del mondo diviso in mandamenti, appunto: in quartieri da accaparrare, e spartire fra capi-picciotti. Se la Nuland usa il linguaggio del padrino è perché in Ucraina va in cerca di clienti, affiliati. Con l’Europa entra in un rapporto di rivalità mimetica, imitativa: di competizione e dominio. La rivolta in sé degli ucraini l’incuriosisce poco, e per questo viene occultata la presenza nei tumulti di destre estreme e neonaziste (il partito Svoboda e il gruppo Pravi Sektor, «Settore di destra»). Importante è mettere proprie bandierine sul tecnocrate ed ex banchiere centrale Arseniy Yatsenyuk, nel caso americano. Su Vitali Klitschko, ex campione di pugilato e capo di Alleanza Democratica per la Riforma nel caso dell’Unione. Fottiti Europa vuol dire che c’è lotta per la conquista di clientes.
Che un intero paese è visto, dagli uni e dagli altri, come cosa nostra. Questa politica neocoloniale, l’Europa la conduce senza metterci né soldi, né intelligenza politica. Ci mette la propria superiorità morale: cioè parole soltanto, anche se belle. Se la prende con la Russia ignorando due cose. Primo: la russofobia di parte del movimento proeuropeo non è diretta contro Mosca o Putin, ma contro gli ucraini di origine russa (22% della popolazione, soprattutto a Est e in Crimea). Secondo: se il paese è lacerato tra Mosca e Bruxelles è perché l’Unione s’è fatta meno attraente. Per gli ucraini — autoctoni e russi — ridotti alla miseria, non è indifferente il prestito annunciato da Putin (15 miliardi di dollari) né la promessa di forniture di energia a costi bassi.
Siamo di fronte a due colonialismi, con la differenza che quello europeo offre poca sostanza e molta ideologia. In realtà non è l’Unione a entrare nel rapporto di rivalità mimetica con Washington. Chi si è attivata è innanzitutto la Merkel, che ha interessi sia partitici sia geopolitici nel proprio retroterra. Accade così che ogni staterello dell’Unione ha il proprio particulare da difendere, e questo rafforza ancor più la convinzione Usa che l’Europa sia un pupazzo, da «fregare» senza farsi scrupoli.