Spazi sotterranei aperti e vivibili, illuminati dalla luce solare attraverso fibre ottiche cablate e procedimenti artificiali di fotosintesi; demolizione delle anonime superstrade e riassetto degli antichi quartieri a dimensione umana; rapporto diretto con l’acqua attraverso la costruzione di strutture galleggianti nei fiumi. Non si tratta di fantasie avveniristiche, ma di progetti operativi – adesso presentati nella fortunata serie americana Dream City, lanciata da Salon.com e dedicata alla prefigurazione di città-modello – che riguardano metropoli come New York, Los Angeles, Minneapolis. Ma come collocare queste immagini attraenti di città in un mondo postmetropolitano in cui l’idea stessa di spazio cittadino sembra messa in questione? Come riattivare una relazione vitale con il territorio quando non è neanche più riconoscibile il confine tra l’insediamento urbano e il suo esterno? Quando numerose città superano i quindici milioni di abitanti, in gran parte ammassati in favelas o slums senza servizi igienici e sanitari? Qual è, insomma, e dove passa il discrimine tra sogno e incubo?
Intorno a questa domanda di fondo sul destino della città contemporanea, certo non nuova, ma resa sempre più urgente dalla intensità delle trasformazioni radicali che investono le nostre società, va crescendo un dibattito che vede impegnati non solo architetti, ma anche filosofi, sociologi, antropologi. Certo è che siamo di fronte a una vistosa contraddizione: da un lato assistiamo a una sorta di trionfo generalizzato della città, con una brusca impennata del processo di inurbamento, per cui si prevede che entro venti anni il 75/100 della popolazione mondiale andrà ad abitare in agglomerati urbani sempre più estesi. Dall’altro è proprio tale espansione inarrestabile che, fagocitando i conglomerati circostanti, finisce per determinare l’implosione dello spazio cittadino in una sorta di città-regione non più assimilabile a quell’insieme di caratteristiche geografiche, storiche e simboliche che fino adesso hanno identificato qualcosa come una città.
Tuttavia, pur nella consapevolezza delle straordinarie novità prodotte dalla globalizzazione, non bisogna perdere di vista il fatto che questa metamorfosi in atto – come la tratteggia Benedetto Gravagnuolo in Metamorfosi delle città europee (Clean 2011) – ha una genealogia profonda che trova la propria matrice originaria nella civitas romana. Come ha già sostenuto Emile Benveniste nei suoi fondamentali lavori sulle lingue indoeuropee, mentre la polis greca rimanda ad una dimora stabile, radicata in un territorio delimitato da confini certi, la civitas romana è fin dall’inizio caratterizzata da una irresistibile tendenza all’ampliamento e allo sconfinamento. In questa chiave Massimo Cacciari, in La città (Pazzini 2004), ha potuto sostenere che a tenere insieme l’urbs romana non è l’origine territoriale, ma il fine ultimo, tendente all’infinito a coincidere con l’orbis, con il mondo intero.
Questa bipolarità costitutiva tra le due tipologie urbane è ripresa adesso da Anna Lazzarini in un volume appena edito, Polis in fabula. Metamorfosi della città contemporanea (Sellerio 2011), che ripercorre la storia della città occidentale, arrivando a quel punto limite in cui essa fuoriesce anche da se stessa, pervenendo nello stesso tempo al suo culmine e alla sua incipiente dissoluzione. Raccolta, nella stagione medioevale e comunale, intorno ai luoghi simbolici del potere e del sacro, cioè al Palazzo del Governo e alla Cattedrale, essa si affaccia sulla modernità assorbendo da un lato le connotazioni nazionali, evidenti soprattutto nelle capitali europee, e dall’altro i luoghi tipici della civiltà industriale – fabbriche, magazzini, mercati.
È da tale processo di integrazione che nascono le grandi metropoli moderne, portatrici al loro interno di opportunità di sviluppo e di tensioni sociali, di contaminazioni e lacerazioni. A partire da questa dialettica tra elementi simbolici, politici, economici di differente natura – analizzata dai grandi interpreti della Krisis come Weber e Simmel, Krakauer e Benjamin, Lukács e Adorno – la città europea negli anni Trenta sembra toccare una soglia ultimativa oltre la quale muta radicalmente statuto. Mentre fino ad allora è sembrato ancora possibile organizzare questi vettori dissonanti in una cornice unitaria – secondo un piano funzionale cui lavorano gli architetti del Movimento Moderno – già dopo la guerra è come se una ferita irrimarginabile si incidesse nel suo corpo, separando la città da stessa. Quella che fino a poco tempo addietro era una periferia, non sempre inospitale e degradata, diventa ciò che i francesi chiamano banlieue, ovvero, come argomenta Jean-Luc Nancy in La città lontana (Ombre Corte 2002), una zona al contempo di "bando" dal cuore pulsante della città e di "banalizzazione" dell’esperienza quotidiana.
Da allora in avanti, e sempre più, la città perde del tutto la sua fisionomia, si sfalda e si deforma, si gonfia e si disgrega, in una mescolanza insensata di arcaismi e ipertecnologie, di rifiuti e hi-tech. È la postmetropoli di cui Vittorio Gregotti, in Architettura e postmetropoli (Einaudi 2011), ricostruisce il profilo ambivalente, i rischi di assoggettamento alla finanza globale ed al consumo illimitato, ma anche le potenzialità e le sfide. Una volta varcata la soglia della modernità, per le megalopoli mondiali non è possibile tornare indietro. Come potrebbero, Città del Messico o Pechino, con i loro venti-trenta milioni di abitanti, rientrare dentro il cerchio organico della città novecentesca? Come pensare Istanbul, Il Cairo o Los Angeles nella forma compatta e compiuta della polis? Quando tutti i gangli operativi che ne collegavano le parti – la rete dei servizi, dei trasporti, delle comunicazioni, ma anche della luce, del gas, dell’acqua – sono diventati i nodi di una rete mondiale che rende le città "globali" (Sassen), "infinite" (Bonomi-Abbruzzese), "reticolari" (Castells).
Schiuma metropolitana – insieme fuori-città ed anti-città, luoghi di flusso, miscela di etnie, pratiche, funzioni contrastanti. Non solo conflittuali, le città sono esse stesse oggetto di conflitto tra spazio e tempo, identità e differenza, saperi e poteri. Già l’antica polis greca, del resto, condivideva la sua genesi con il polemos, in una tensione irrisolta tra dentro e fuori, unità e molteplicità, autoctonia e alterità. Anzi proprio l’idea di relazione – con tutti i dissidi che porta dentro – costituisce il punto a partire dal quale è possibile, ancora oggi e forse mai come oggi, pensare la città come un tessuto vivente in cui linguaggi, storie, mondi diversi vengono comunque a contatto.
Se è così, allora, se il nostro sguardo sarà capace di sdoppiarsi, riconoscendo nell’apparente fuga dei significati una nuova circolazione di senso, allora anche le figure, oggi improbabili, di Dream City ritroveranno un loro posto nell’immaginario, e perfino nella realtà, del nostro tempo. Del resto non è la prima volta che una trasformazione radicale riconduce a contatto con un’origine mai del tutto cancellata. Irrecuperabile sotto il profilo dell’organizzazione spaziale e della compattezza sociale, se ripensata nella dimensione dell’ethos pubblico e dell’abitare comune, qualcosa dell’antica polis potrà tornare a battere nel cuore frenetico della nuova cosmopoli.
postilla
Ovviamente da apprezzare il sense of humour di Roberto Esposito quando, davanti alla tentazione di infilare il cronico Italo Calvino nella sua rassegna di nomi di persone e idee (a volte un po’ meno che idee) di città, ha consapevolmente desistito. Resta una vetrina di libri (con l’eccezione della serie di brevi flash in divenire di Salon citata in apertura, consiglio anche la rubrica di Grist con medesimi temi e autori) dove ciò che scompare dall’orizzonte è proprio la città. Entità esplosa da tempo, assurta a categoria dello spirito, supermarket di spunti scientifici e più terrene ambizioni di bottega. Ma al tempo stesso troppo affascinante punto teorico di sintesi perché si possa rinunciare all’idea, o almeno a inseguirla. Se possibile, però, separando il grano dalla zizzania, o meglio le riflessioni che nella città provano a starci, da quelle che non ci sono mai passate, salvo raccattare la magica parola, che da qualche migliaio di anni vende benissimo (f.b.)