Quella dell'Università «è una funzione civile, dunque né volta all'erudizione, né alla mercantilizzazione: bensì alla formazione del cittadino, la cui premessa è lo spirito critico». Il
manifesto, 25 aprile 2013
Un violentissimo tsunami si è abbattuto sull'università italiana, devastandone le strutture, corrompendo gli ambienti umani, mettendo a rischio la stessa sua sopravvivenza. Ma, sebbene l'uragano abbia investito l'intero sistema accademico, con una serie di fangose, gigantesche onde (contro cui ben poco ha potuto la generosa, spontanea onda pulita degli studenti, lasciati ben presto soli dai docenti), il suo vero, preciso obiettivo era l'università pubblica, le università di Stato. Come che sia, se è vero che stiamo subendo da anni un micidiale combinato disposto nel quale tutte le forze politiche si sono esercitate, per ignoranza, per voluttà del "novitismo", per insipienza, o, più spesso, per complicità con grandi potentati economici, è altrettanto vero che, per dirla in termini semplici, "ce la siamo cercata".
Insomma, l'università, come mondo separato, invece di venire presidiato, dai suoi stessi componenti, come un baluardo del sapere critico, è stato difeso quale mondo che si autogestisce, e la battaglia per l'autonomia è stata interpretata come un riconoscimento di un inquietante: "a casa nostra comandiamo noi". Una difesa errata nella forma oltre che nella sostanza; anche politicamente (ed eticamente) insostenibile. E che ha favorito l'attacco mediatico, a sua volta propedeutico a quello politico, contro gli "sprechi", la "corruzione", e soprattutto l'"inutilità" del sapere che negli atenei italiani si andava producendo: e invece di rivendicare quella "inutilità" come una bandiera di cui andare orgogliosi (sulle nostre insegne avremmo dovuto innalzare il motto für ewig, tra Goethe e Gramsci), troppa parte del mondo accademico ha sostenuto che no, non era inutile la loro scienza. E che essa poteva invece servire. A cosa? Al mercato, naturalmente.
Si è insomma, immediatamente, fin dai primi anni Novanta, consule Berlinguer (ovviamente il Berlinguer ministro di una istruzione non più "pubblica", il primo devastatore del nostro sistema educativo) entrati nel gorgo del mercantilismo, del produttivismo, e di uno sciagurato novitismo o nuovismo. Alcuni, anzi, non pochi hanno sostenuto il mostro del 3 + 2, prima, la legge Gelmini poi, l'Anvur infine, blaterando che non si poteva far diversamente, ovvero (udite, udite!), che comunque si sarebbe trattato di un progresso per un sistema ormai troppo vecchio, e che, magari pur criticandone qualche determinato aspetto, quelle riforme erano essenziali, anche se non ci piacevano, per "entrare in Europa", o peggio, per reggere la competizione internazionale.
Tutto questo penoso argomentar, come è stato dimostrato dagli studiosi veri (non quelli da salotto televisivo o da editoriale del Corriere della Sera), cifre alla mano, era fondato su dati sbagliati, o volutamente corrotti, e infine surrettiziamente interpretati per far passare il messaggio nella famigerata opinione pubblica che i professori italiani sono troppo numerosi, e pagati fin troppo generosamente, che la loro produttività è scarsa, che il criterio del "merito" (l'infame parola!) era stato negletto e vilipeso, e che gli atenei erano meri luoghi di intrattenimento, di consumo di risorse, da impiegare ben altrimenti...
Insomma, nel silenzio degli uni (la maggioranza, davvero silenziosa, per disinteresse o per viltà), si sono udite solo le voci degli altri, i consenzienti, o addirittura gli entusiasti, e comunque i collaborazionisti. In nome del realismo ci si è piegati, ma come quasi sempre quando si invoca quel peraltro nobile concetto della filosofia politica, si è divenuti iper-realisti o addirittura irrealisti, dimenticando funzione e scopi dell'insegnamento universitario, che, come mi ha insegnato Norberto Bobbio, che lo aveva appreso a sua volta da Gioele Solari, è una funzione civile, dunque né volta all'erudizione, né alla mercantilizzazione: bensì alla formazione del cittadino, la cui premessa è lo spirito critico.
Aggiungo, ahinoi, che ben scarsa è apparsa la differenza tra destra e sinistra, e anche tra strutturati e non, e tra le "fasce": certo, legittimamente, chi era fuori voleva entrare, chi era precario aspirava alla stabilizzazione, chi era ricercatore o associato ambiva a salire di grado; e, intanto, gli ordinari - tutt'altro che scontenti dell'accentramento di potere nelle loro mani, che si stava verificando con l'allontanarsi dallo "spirito del Sessantotto" (opportunamente demonizzato da pennivendoli in occasione del quarantennale, che cadeva nel momento d'avvio della crisi, il grande, magnifico alibi dei nostri governanti), anche prima dell'entrata in vigore della "riforma" - gli ordinari si dedicavano essenzialmente a lotte intestine, organizzati per gruppi di potere, per cordate, o, detto diversamente, per bande armate, non di fucili e bombe a mano, bensì di documenti, telefonate, email, sulla base di imperscrutabili calcoli strategici: se magari avessero dedicato qualche ora di più allo studio e alla ricerca, avremmo meno opere fatte di travasamenti di libri in altri libri (per dirla con Benedetto Croce); se si fossero impegnati in proposte e in concrete pratiche di miglioramenti e di pulizia interna, invece di impegnarsi in mediocri trame di potere, il presidio dell'università dai lanzichenecchi tremontiani, sarebbe stato ben più saldo; se si fossero gettati, con l'autorevolezza del ruolo, nella difesa del pensiero critico e nella divulgazione di ciò che è e deve essere il sistema della formazione al livello più alto, oggi intorno allo stesso concetto di riforma esisterebbe un discredito generalizzato invece che un diffuso sebbene per nulla informato consenso.
Insomma, ciò che intendo affermare è che siamo vittime in quanto siamo anche complici. Troppo intenti alla tutela del particulare abbiamo perso di vista il generale, considerando, nella sostanza, l'università tutt'altro che un bene comune. Ma, piuttosto, un trampolino di lancio per carriere interne o esterne (giornalistiche, politiche, e persino economiche). Allora, è imprescindibile la rivendicazione dell'università come bene comune, sottolineando la centralità dell'insegnamento e della formazione a carattere pubblico, e, preciso dal mio punto di vista, pubblico per me significa tre cose: non locale, né privato, né funzionale al mercato. Al riguardo una seria riflessione critica sul tema della cosiddetta autonomia universitaria e in generale scolastica non sarebbe forse da compiere?
Abbiamo subìto una serie incessante di uragani,equamente distribuiti per genere: l'uragano Berlinguer, l'uragano Moratti, l'uragano Gelmini, per tacer dei minori. Tra i quali l'esecutore testamentario della Gelmini, Profumo. Il suo, a ben vedere, non è nemmeno un uragano, né uno tsunami né un ciclone; anzi, manco una tempesta imperfetta. La sua è una piatta, inerte, applicazione di un dispositivo, dei cui effetti praticamente letali non ha fatto le mostre neppure di accorgersi. Anzi, si compiace: con sé, con i suoi predecessori, con il governo tecnico (politicissimo, in realtà) di cui è parte. E intanto lo tsunami, nello scellerato empito "riformatore", dimenticando la nascita europea (forse addirittura italiana) della universitas studiorum, sta tentando un'americanizzazione forzata del nostro sistema, dalle forme, alle strutture, persino alla lingua. E in un disordine tipico del totalitarismo, tra facoltà di cui si è decretata la morte violenta, tra dipartimenti costretti a impuri connubi in nome di un risparmio apparente, tra scuole che nessuno in realtà vuole che nascano davvero, mentre la bufera è ancora in corso, anche se la fase più acuta è passata, marinai perduti (alla Izzo) si aggirano fra i relitti, privi di bussole, alcuni alla ricerca di un isolotto per salvare se stessi, altri più avventurosi pronti ad aggrapparsi a uno scafo, per montarvi sopra, e veleggiare, chissà, verso nuove magnifiche sorti. Che poi non siano affatto progressive poco importa, se l'ottica rimane quella della salvezza individuale.
Sapremo contrapporre una dimensione pubblica anche nella durissima battaglia odierna, tra un governo che ha fatto harakiri, in attesa del governo prossimo venturo? Sapremo dire con voce forte e chiara che la nostra causa è quella dell'intera società? Sapremo convincere che non stiamo difendendo posizioni consolidate, o privilegi, o separatezze dell'universo accademico? Sapremo, infine, metterci in gioco e dare il buon esempio, personalmente, pronti alla lotta anche individuale, ma in connessione con tutti gli altri?
Questo è l'intento che mosse Piero Bevilacqua e il sottoscritto, ormai circa un anno fa, quando lanciammo il movimento per "L'università che vogliamo". E questo è l'intento che dobbiamo, credo, continuare a perseguire, rilanciandolo con vigore, adesso, finché avremo la forza di emettere una voce, possibilmente unisonica, anche se proveniente da ambiti e individui diversi. Che poi la nostra voce trovi orecchie disposte ad ascoltare è altro affare. Ma più forte essa sarà, più avremo speranza che qualche coscienza si scuota.