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Josh Stephens
Come creare e sfatare i miti sullo sprawl
20 Agosto 2006
Recensioni e segnalazioni
Una nuova recensione al libro pro-sprawl di Robert Bruegmann. E finalmente una condivisibile stroncatura, sul metodo e sul merito. Planetizen, 13 giugno 2006 (f.b.)

Titolo originale: Debunking, and Creating, Myths of Sprawl – Scelto e tradotto per eddyburg_Mall (http://mall.lampnet.org) da Fabrizio Bottini



Qualunque movimento – sia esso politico, accademico, o geografico – ha bisogno di pro e contro, e in un mondo che negli ultimi anni ha adottato tutto quanto è più denso, piccolo, o “ smart”, anche alla smart growth può servire un avvocato del diavolo. In Sprawl: A Compact History (University of Chicago Press, 2005), il professore di urbanistica dell’Università dell’Illinois Robert Bruegmann si assume questo ruolo, e propone una irresistibile serie di affermazioni a mettere in discussione quelle che sono, ora, le idee correnti sullo sviluppo urbano.

Sprawl pone una serie di questioni provocatorie. Tutta la politica degli interventi sui quartieri popolari era razzista, o semplicemente cauta strategia delle banche nell’investire soldi in zone già condannate? Il fatto di sbancare con le ruspe terreni vergini rivela più crepe nel capitalismo di quanto non faccia lo stipare immigrati dentro palazzoni in affitto? Lo sprawl rappresenta solo il desiderio Americano di conquista degli spazi aperti, o qualunque cultura vorrebbe più spazio per abitare? Aspettare l’autobus è più appagante di quanto non sia guidare due tonnellate d’acciaio quando e dove si vuole?

Con una prosa vivace e acuta, rivolta sia ai più snob che alle casalinghe, Sprawl è abbastanza coinvolgente da meritarsi numerosi lettori, che amano le storie interessanti e le argomentazioni entusiasmanti, anche quando la logica lasci un po’ a desiderare. Lacune che nascono ad esempio dal fatto che, diversamente da quanto afferma il sottotitolo, Sprawl non è una storia generale. Si concentra in qualche modo su esempi isolati, e anche se quei casi sono di per sé indiscutibili, le implicite generalizzazioni, suggestioni, le serie di cifre accuratamente scelte a sostegno, costruiscono argomentazioni in definitiva solo in parte seducenti.

Il libro si articola in tre parti: una storia dello sprawl, una analisi dei movimenti che ad esso si sono opposti, e le “cure” figliate da questi movimenti. In ogni caso, Bruegmann parte dalla constatazione che l’attuale contesto americano è tutt’altro che perfetto, ma sostiene che gli americani hanno scelto lo sprawl perché è cosa buona, e nessun movimento favorevole ad una maggiore densità, non importa quanto zelante, oscurerà le virtù del suburbio.

La sfuggente definizione di Sprawl

Bruegmann inizia col proporre una buona e comprensiva definizione del concetto di sprawl, perché, sostiene, i gruppi di interesse e le ideologie spontaneamente tendono a pervertire lei idee, riguardo a un concetto tanto nebuloso. Fa riferimento allo sprawl come concetto “inventato”, come se altri nomi potessero contenere meno asfalto ed eliminare meno alberi. Spiega: “lo sprawl, come tanti termini quali degrado urbano, o slum, o altri legati allo sviluppo urbano, non è tanto una realtà oggettiva quanto un concetto culturale, un termine nato in un determinato tempo e luogo … ha accumulato attorno a sé un intero insieme organico di idee e assunti”. Peccato che non offra una spiegazione simile ad altri termini, come “comunità”, “stile di vita”, “prato della villetta”, o “sogno americano”: ma così è il postmodern.

Poi, Bruegmann tenta di definire a parte quanto rende lo sprawl così problematico: secondo qualunque punto di vista. Ne ignora l’intrinseca componente spaziale –preferendo invece basarsi su aspetti più soggettivi di carattere culturale, demografico, politico – e liquida irridendole le preoccupazioni estetiche. E con pesante ironia concede in conclusione “e, tra l’altro, è brutto”. É l’unico riferimento a questioni di estetica, e questo tono liquidatorio significa qualcosa di più, del fatto che Bruegmann probabilmente non gradirebbe fare il pendolare in macchina tutti i giorni insieme a Peter Blake. A dire il vero non nega il degrado visivo dello sprawl – in realtà, lo ammette – ma tenta invece di far capire che non si tratta di una questione seria, forse perché le questioni estetiche non consentono obiettive quantificazioni, e quindi non avrebbero impatti sulla vita delle persone.

Una delle più stravaganti ri-definizioni dello sprawl proposte da Bruegmann riguarda il fatto che non si tratti di fenomeno unicamente americano. Indica la crescita di Parigi come prova che lo sprawl sia una forza universale della natura, notando come solo una piccola quota dei parigini abiti nelle strade delle cartoline. Ma non dà nessuna prova del fatto che la diffusione dello sprawl non sia niente di diverso da un contagio, indipendentemente dall’origine nazionale. Certo, il fenomeno non si limita all’America, ma non lo fanno nemmeno il cancro, l’AIDS, o i Backstreet Boys. Inoltre, questa affermazione lascia ancora aperto il problema di dove si precipiterebbero tutti questi abitanti delle fasce esterne, di fronte alla possibilità di vivere nel settimo Arrondissement, se solo non fosse già pieno.

Con questa“definizione”, o mancanza di, la prima parte di Sprawl avanza cronologicamente sino al XX secolo a ricostruirne la storia, i cui elementi base sono noti a qualunque studente, o anche a un osservatore casuale della forma urbana americana. La tesi appassionante di Bruegmann è che lo sprawl sia il risultato di scelte consapevoli compiute dagli americani riguardo a dove vogliono abitare, come vogliono abitare, cosa sono disposti a fare per arrivarci. Bruegmann espone molte delle classiche teorie del complotto sullo sprawl (che variamente coinvolgono i costruttori, le banche, le compagnie petrolifere e automobilistiche, la razza bianca, e una miriade di leggi e strategie favorevoli), e offre alcune ragionevoli spiegazioni alternative non basate su cupidigia, corruzione, razzismo. Ma anche ammettendo che lo sprawl sia un regalo che l’umanità fa a sé stessa, i termini poco gentili che usa Bruegmann per le altre forme urbane e i corrispondenti stili di vita rappresentano una fastidiosa inclinazione, che non dovrebbe pervadere un lavoro scientifico.



Politica, stereotipi, e anelli mancanti

In un’America ora ben propensa alla geografia politica degli stati rossi o blu, i riferimenti beffardi alle “ élites” anti- sprawl o agli “abitanti della città” offre indizi per niente vaghi sulla scaletta politica di Bruegmann. Ha già denigrato Parigi, e ora si rivolge ai detrattori borghesi dello sprawl, aggrappati a “una particolare serie di assunti su una urbanità costituita dai membri di una ristretta élite culturale ... dentro a centri città densi che contengono le principali e altolocate istituzioni della cultura. In questi centro tanto densi, ritengono, i cittadini sono più tolleranti e cosmopoliti a causa della propria costante interazione con persone diverse da sé”. Nel suo caratterizzare gli obiettivi del progressismo urbano come desolatamente stravaganti, Bruegmann non spiega esattamente cosa non va, nell’accogliere le classi sradicate, dare ad esse accesso eguale alle istituzioni, consentire di sfuggire all’atteggiamento bigotto che li vorrebbe esclusi, allontanati, ad accettare il loro destino “bassolocato”.

Bruegmann non si basa comunque solo su argomentazioni culturali, e nell’affrontare il più ampio punto di vista geografico e demografico offre la propria più compiaciuta (e pubblicizzata) asserzione quando dichiara che la regione degli infiniti chilometri quadrati di Los Angeles non si qualifica, effettivamente, come sprawl. A seconda di come si girano i dati censuari, Los Angeles diventa l’area urbana più densa del paese. Questa discutibile osservazione porta Bruegmann a proclamare che lo sprawl, a L.A., semplicemente non esiste. In realtà, adotta un argomento dei suoi avversari, intendendo che la densità fa diventare tutto OK, come se alta densità significasse che milioni di ettari di deserto, spiagge, terre agricole, macchia e pianure costiere non dovessero mai essere toccate dalle ruspe, mai inquinate, mai deturpate da costruttori alla ricerca di guadagni facili e a breve termine.



Un problema di scelte

La grande forza di Sprawl sta nei capitoli finali, che espongono gli aspetti problematici delle politiche e normative, come le fasce di confine dell’urbanizzazione o i sostegni al trasporto pubblico, ideate per combattere lo sprawl. Bruegmann nota che tutti questi tentativi hanno spesso funzionato male, aumentato i prezzi degli immobili, e/o provocato contraccolpi, poi efficacemente sostiene che forze più potenti di quelle delle politiche pubbliche e della sensibilità estetica abbiano complicato e distorto i nostri sforzi per uscire dalla crescita rampante attraverso le greenbelt, l’urbanistica, le metropolitane leggere.

Davvero, le politiche pubbliche moderne trarrebbero grande beneficio da un riesame onesto di quali siano stati gli effetti devianti di alcune scelte rispetto ai propri obiettivi, e Bruegmann evoca i pericoli rappresentati da decisori e burocrati talmente sprofondati nel proprio ruolo da non accorgersi, o dar peso, agli effetti di queste scelte sulle persone (su questo aspetto, se non sulle conclusioni, lui e Betty Friedan sarebbero certamente d’accordo). Ma Bruegmann dà a questa conclusione un tono di sconfitta definitive, a intendere che la permanenza dello sprawl a fronte di tutti i tentativi di regolamentazione sta a significare che l’America deve semplicemente arrendersi all’imperfezione naturale, come se fosse la natura a dirci che la via più facile è anche la migliore, e che la scelta migliore è quella che abbiamo già fatto.

Chi propone il new urbanism, la smart growth, o simili, spesso subisce le critiche che li definiscono idealisti col coraggio di prescrivere un mondo fragile completamente avulso dalle realtà della politica, dell’economia, della cultura. Ma anche se queste teorie talvolta mancano in termini di impegno all’equilibrio, all’obiettività, a un metodo rigoroso, lo stesso si può dire di Sprawl. Bruegmann si merita un elogio per aver proposto conclusioni decise e discutibili, che controbattono quelle dei suoi avversari intellettuali, come James Howard Kunstler, Andres Duany, o la scomparsa Jane Jacobs. Ma nel rispondere ad armi pari, Bruegmann spesso dimentica di spiegare la propria logica, o di riconoscere anche una scintilla di saggezza nelle teorie che tenta di combattere. Dato che non possono essere tutte sbagliate, sarebbe assurdo credere che lui, nonostante tutta la sua tracotanza, abbia completamente ragione.

Il risultato è una versione a cartoni animati dello studio scientifico, ad auspicare poco più dello status quo. É divertente, e in parte anche vero, ma alla fin fine riduce il dibattito a uno scontro urlato. E finché non arriverà un altro avvocato del diavolo con argomentazioni più serie ed equilibrate al senso comune accettato, la battaglia contro lo sprawl continuerà, senza alcun dubbio, a riscrivere norme, riorientare investimenti, tagliare le gomme che lo fanno avanzare.



Nota: la tesi conclusiva di Stephens, della ridicolizzazione dell’avversario trasformata in una immagine generale da cartoni animati, è curiosamente ed esattamente la stessa della mia recensione a Bruegmann di qualche mese fa, intitolata Wilmaaaa, dammi lo Sprawl! (e, giuro, non ci siamo messi d’accordo); Josh Stephens è direttore di The Planning Report e Metro Investment Report , newsletter mensili sull’urbanistica, gli investimenti in infrastrutture, le politiche pubbliche nella regione di Los Angeles. Già insegnante alle scuole superiori e scrittore freelance, ha pubblicato di recente testi su Volleyball Magazine , English Journal , e You Are Here: The Journal of Creative Geography .

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