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Sergio Caldaretti
Come avere cura del territorio
2 Gennaio 2011
Capitalismo oggi
Ancora un interessante intervento nel dibattito sulla crisi. Perché e come per utilizzare le potenzialità del territorio è necessario un «uso sociale degli strumenti di pianificazione disponibili». Il manifesto, 2 gennaio 2011

Negli ultimi mesi molti contributi apparsi su questo giornale hanno sottolineato la centralità del «territorio» nel definire politiche e strategie alternative in grado di contrastare le logiche del mercato e di recuperare una consapevolezza sociale delle loro terribili conseguenze sulla vita individuale e collettiva. La prospettiva culturale da cui partire guarda al territorio come bene comune. Su questo paradigma sono ormai numerosi i contributi di riflessione, ma anche le iniziative concrete, che tendono a connettere questioni specificamente «locali» a strategie di livello globale: la lotta contro la privatizzazione dell'acqua ne è un esempio significativo.

Considerare il territorio come bene comune comporta dare nuova centralità alle relazioni di prossimità tra società e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, riaffermare una cultura della sfera pubblica. E, da qui, sedimentare una progettualità collettiva che assuma la cura del territorio come obiettivo centrale.

Che vuol dire “cura del territorio”

Cura del territorio vuol dire molte cose, in concreto. Vuol dire guarire. Vuol dire avere cura. Vuol dire fare in modo che.

Guarire comporta mitigare i rischi ambientali che l'incuria e l'indifferenza degli ultimi decenni hanno prodotto. Rischi legati alle disastrose condizioni idrogeologiche; agli attuali modi di produzione nell'agricoltura, nelle attività industriali e artigianali e nel «gigante terziario»; alle criticità ambientali dei luoghi di vita, in particolare nelle città ma anche nelle «campagne urbanizzate» e nei contesti insediativi marginali.

Avere cura significa agire con costanza per mantenere i luoghi in condizioni accettabili dal punto di vista ambientale, funzionale, estetico.

Il terzo significato, fare in modo che, guarda al futuro, al «progetto di territorio».

Pongo a questo punto una questione delicata: che ruolo possono avere, per la cura del territorio, gli «strumenti formali» di pianificazione e di programmazione oggi disponibili? Io credo ancora nella loro utilità. Un loro «uso sociale», che si basi sulla progressiva ridefinizione e sedimentazione «cosciente» di una cultura del territorio, sulla consapevolezza delle relazioni reciproche tra società locali e risorse, sull'autodeterminazione delle società insediate, può contrastare con efficacia le strategie messe in campo, fuori e dentro i contesti locali, dai soggetti potenti. Per questo, ritengo fondamentali tre linee di azione.

Tre linee d’azione

per l’uso degli strumenti di pianificazione



Prima linea di azione: utilizzare al meglio gli strumenti disponibili. Occorre considerare con grande attenzione l'ampio e complesso quadro di strumenti di pianificazione e di programmazione agibili a tutte le scale, da quella del quartiere a quella nazionale. Sono però convinto che sia necessario dare assoluta centralità alla pianificazione «canonica», cioè agli strumenti che le leggi affidano alle istituzioni territoriali per la gestione dei loro ambiti di competenza: mi riferisco alle Regioni, alle Province, ai Comuni. Ognuno di questi tre livelli offre specifiche potenzialità.

L'istituzione regionale è quella con maggiori capacità di manovra economica; la pianificazione regionale appare dunque la sede più adatta a produrre strategie operative in grado di correlare sfera territoriale e sfera economica. Le Province, istituzioni oggi traballanti e di incerto destino, per il loro carattere di «vicinanza» con il territorio possono, attraverso i loro Piani Territoriali, definire obiettivi e orientamenti di breve/medio termine fortemente connessi con i caratteri delle risorse e delle società locali. I Comuni hanno, per norma, il compito di definire le dinamiche di insediamento e le modalità di uso del suolo; attraverso la pianificazione comunale si può contribuire a far prevalere le esigenze di benessere della società insediata rispetto alle tensioni speculative. Ed è a questo livello che trova maggior forza l'istanza del suolo come bene comune; un'istanza che a mio avviso dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui «destini» dell'urbanistica e, più in generale, sui nuovi paradigmi per una società consapevole e autodeterminata.

Seconda linea d'azione: dare centralità al sistema economico/produttivo. Un progetto di territorio non deve affrontare solo i temi dell'organizzazione fisica, funzionale e ambientale; questi devono esser coniugati con stringenti istanze di organizzazione economico/produttiva. Il nodo cruciale sta nel definire obiettivi, strategie e azioni che riguardano i modi del «produrre» (in senso lato) e le loro relazioni con la società insediata. Ciò va fatto considerando al contempo la sfera locale e quella globale. Obiettivo di fondo è scardinare una visione consolidata del territorio stesso come «oggetto di mercato», per cui tutto ciò che lo costituisce (persone, suolo, manufatti, funzioni) viene considerato come merce utile a produrre rendite e profitti.

Terza linea di azione: costituire contesti locali di progettazione sociale. Un progetto di territorio «formalizzato» non può essere delegato all'istituzione, ma deve scaturire da una dialettica sociale. È nell'ambito della società insediata che devono emergere istanze e pressioni in grado di innescare il processo di confronto. I «poteri forti» legati alla rendita, alla speculazione e alla sfera produttiva godono di una presenza e di una capacità di influenza ormai radicate in ogni contesto e ad ogni scala. Al contrario, le associazioni di prossimità, i comitati che si costituiscono su specifiche questioni, le stesse espressioni locali dei partiti, nonostante la tendenza a costruire «reti» mostrano ancora serie difficoltà di incidenza reale. È necessario allora agire, soprattutto nei contesti locali, per un progressivo rafforzamento di queste «istanze deboli»; per questo, giocano a mio avviso un ruolo primario la capacità di diffondere e condividere le informazioni, la capacità di costruire luoghi (virtuali ma soprattutto reali) di incontro, la capacità di individuare questioni territoriali in grado di stimolare gli individui ad uscire dall'isolamento favorito dall'involuzione delle relazioni sociali.

È un percorso lungo e irto di difficoltà, ma obbligato se si vuole produrre progettazione sociale.

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