Il manifesto, 19 settembre 2015
«Non più cultura in ostaggio dei sindacati», cinguetta Renzi. «La misura è colma», fa eco Franceschini. Anche il sindaco della capitale, Ignazio Marino, sembra su di giri: «è uno sfregio per il nostro paese», tuona. Franceschini e Renzi si spalleggiano, e mentre si professano paladini del Colosseo, chiuso per due ore a causa di un’assemblea sindacale già annunciata, nei fatti dichiarano guerra al patrimonio stesso. Perché per tenere aperti musei e siti archeologici, rendendoli quel prezioso biglietto da visita che in realtà sono per naturale dna, bisognerebbe prima di tutto sostenerli, trattarli davvero come beni comuni. Ma quella manciata di ore «rubate» ai turisti ha tenuto in scacco i vari proclami di Renzi&Co sulla cultura, divenuta una formidabile macchina per spremere consenso. Ha lacerato una maschera assai comoda da indossare, travolgendo un argomento così amabilmente «social». Il ritardo di apertura dell’Anfiteatro Flavio è rimbalzato in rete, un fiume in piena che ha rotto gli argini: i più smaliziati hanno trattato la notizia con ironia, altri con disappunto, diffusamente il «disagio» ha prestato il fianco a una denigrazione dei lavoratori, aizzata soprattutto dal governo.
A uno sguardo distratto, quella specie di tsunami che ha attraversato il Parlamento, scosso di fronte ai turisti in fila fuori dal Colosseo, dovrebbe far sperare per il meglio: i deputati, dopo anni di olgettine, feste e corruzione traversale hanno finalmente a cuore qualcosa che li rende più umani. Il soggetto, oltretutto, è bipartisan. Se il Pd nazionale ha gridato allo scandalo («non si chiude la cultura» ) e addirittura un pasionario come Pedica si è offerto volontario in veste di custode, altri a destra (e pure diversi a sinistra) ne hanno approfittato per attaccare il diritto di sciopero. Che poi era un’assemblea di due ore, come avviene in tutti i musei del mondo senza suscitare isterismi: la National Gallery di Londra ha serrato le porte per 50 volte in un anno di fronte alla minaccia di un passaggio in mani private.
Alla fine della giornata, è arrivata la schiarita: l’annuncio di un nuovo decreto-legge che inserisca la cultura fra i servizi essenziali. Bene, ha affermato il soprintendente Prosperetti, fermo restando il fatto che tutto era stato annunciato, non si è trattato di chiusura ma solo di un posticipo e avvisi multilingue erano stati esposti sui monumenti.
In vista di una privatizzazione dei beni culturali a cui si punta con ogni energia possibile – i commissariamenti sono stati una catastrofe, quindi una strada non più percorribile – ha preso forma un braccio di ferro tra sindacati e governo. Una volta ventilato lo sciopero nazionale, lo scontro è diventato epico: i custodi rivoltosi come tanti Spartaco che si rifiutano di avallare il nuovo hashtag, «la buona cultura». Vale la pena, però, fare un passo indietro per scavalcare l’onda emotiva e mediatica. E con un po’ di sano distacco, cercare di capire cosa sia realmente successo in una giornata politica la cui agenda ad hoc è stata costruita fin dal mattino.
I turisti, invece della consueta fila di almeno un’ora per entrare nel celebre monumento, ieri ne hanno fatta una un po’ più lunga. Il Colosseo — come altri siti italiani perché l’assemblea era nazionale — ha aperto più tardi rispetto al consueto a causa di un incontro fra lavoratori e sindacati. L’oggetto? La mancanza del pagamento da parte dello Stato – dal novembre scorso, quasi da un anno, del cosiddetto «salario accessorio», quello maturato per le aperture lungorario, e anche notturne. Era il frutto di un accordo che avrebbe permesso di non tenere, appunto, «la cultura in ostaggio», secondo lo slogan renziano. Però non è stato onorato: i 18,500 dipendenti del ministero aspettano le indennità accessorie (30% dello stipendio) da un’infinità di mesi. Oltretutto, siti importanti come Uffizi e Pompei non sono stati chiusi, per dare un segnale positivo. Palazzo Pitti sì: sebbene la città di Firenze pullulasse di turisti, nessuno è corso alle armi. Non sempre le richieste sindacali sono del tutto condivisibili, ma stavolta conoscere le ragioni può aiutare a dirimere la questione.
Il Colosseo è aperto sette giorni su sette, da marzo a ottobre (con visite guidate) anche di notte, eppure soffre dell’endemica e cronica malattia dei nostri beni culturali: la mancanza di organico, vuoi strumentale vuoi per difetto di finanze e tagli inconsulti susseguitisi a raffica. Se la riforma del Mibact è stata compiuta e pure strombazzata ai quattro venti – compreso il fiore all’occhiello dei vari direttori italiani e esteri insediati nei «posti chiave», – poco o nulla si è fatto per colmare quella sconfortante carenza di personale. Per fare un esempio: i custodi in ferie, durante l’estate sono stati sostituiti con persone che venivano pagate 3,5 euro l’ora, gettate nell’arena senza preparazione né alcun corso. Riempire i buchi, di corsa e con il minor danno possibile (in termini economici), continua ad essere la parola d’ordine. Nessun sistema strutturale per ovviare al disagio. Il «caso» l’ha creato il governo stesso, facendo la prima mossa, la più grave: non rispettando i patti. La cultura non c’entra proprio niente.
PROTESTE CHIUSE PER DECRETO
di Riccardo Chiari
Musei. Un’assemblea sindacale di due ore dei custodi del Colosseo scatena la vendetta premeditata del governo. Anche M5S contro i lavoratori. La Cgil attacca Renzi. La riunione era annunciata e autorizzata da tempo. Da mesi ai lavoratori non sono pagati gli straordinari. Ma il ministro ’costruisce’ il caso per un obiettivo che piace al governo: limitare il diritto di sciopero
«No alla cultura ostaggio dei sindacati». Passano gli anni, ma il “bomba” Renzi, così come lo avevano ben presto individuato i compagni di classe del liceo Dante, prosegue a spararle in libertà. Il problema, per gli italiani, è che in un modo o nell’altro il “bomba” è diventato presidente del consiglio. Succede così che una normale assemblea sindacale, chiesta per tempo — una settimana fa — e regolarmente autorizzata dalla Soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma, diventa casus belli. Di una guerra che ha come obiettivo finale il diritto di sciopero. Da limitare, al momento, con un decreto legge detonante. Da ammazzare, entro breve, con una raffica di disegni di legge, già all’ordine del giorno della commissione lavoro del Senato e a quella affari Costituzionali. Firmati dai soliti Maurizio Sacconi e Pietro Ichino.
Bastano le file all’entrata del Colosseo a creare il caso. Dal nulla, visto che nei principali poli museali italiani, quotidianamente presi d’assalto dai turisti, un paio di ore di coda sono fisiologiche. Chiedere per informazioni ai visitatori della Torre pendente di Pisa, costretti a passare uno per volta sotto il metal detector per motivi di sicurezza. E di due ore e mezzo era la durata dell’assemblea, puntualmente segnalata sui quotidiani, perché la comunicazione ufficiale della Soprintendenza era arrivata per tempo. Anche su alcune agenzie di stampa. Ma proprio una di esse — la principale — di buon mattino lancia già, con evidenza, la notizia: «Un’assemblea sindacale tiene chiusi i siti archeologici più importanti della Capitale: Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica».
Da quel momento prende forma un crescendo inarrestabile. Scatta per prima, ma quando i cancelli del Colosseo sono già stati riaperti, la forzista Lara Comi: «Il paese è bloccato dai sindacati». A ruota il capogruppo dem di Montecitorio, Ettore Rosato: «Il Colosseo chiuso per assemblea è uno sfregio all’impegno di Roma per competere con le grandi città europee». Il colpo grosso arriva dopo mezzogiorno: «La misura è colma», detta il ministro Dario Franceschini, pronto ad annunciare che, in accordo con Renzi, proporrà al consiglio dei ministri di inserire musei e luoghi della cultura nei servizi pubblici essenziali.
L’idea non è nuova. Renzi & Franceschini ci avevano già provato a luglio, quando avevano venduto come “selvaggia” un’altra assemblea indetta secondo le procedure di legge, a Pompei. Ma è proprio la legge, peraltro non certo permissiva, ad essere nel mirino del governo e dei suoi sodali. Fra questi ultimi spicca Sacconi: «Roma, caos turisti: ora fare legge su sciopero e diritti sindacali per proteggere utenti beni pubblici». A dargli manforte Angelino Alfano: «Approviamo subito le legge di Sacconi su regolazione sciopero a tutela utenti beni pubblici. Ieri è iniziato l’iter al Senato».
Chi non crede all’evidenza del pensiero unico avrà da pensare guardando il “sindaco antifascista” Ignazio Marino che si fa riprendere da una telecamera mentre dice: «Sono completamente d’accordo con Franceschini». Non fa una bella figura lo staff di Laura Boldrini, che le permette di dire: “È giusto svolgere l’attività sindacale, ma non si può senza preavviso». Desolanti i 5 Stelle: «Dopo Pompei, succede di nuovo e questa volta a Roma». Unica voce fuori dal coro Paolo Ferrero di Rifondazione: «Sono indecenti gli attacchi ai lavoratori del Colosseo e dei Fori. Franceschini dovrebbe occuparsi piuttosto dello stato in cui versa il nostro patrimonio artistico e culturale, che cade a pezzi. Sono le risorse che mancano e i tagli alla cultura che danneggiano il turismo, non l’assemblea dei lavoratori».
È allibito Claudio Meloni, coordinatore per la Fp Cgil del Mibact: «Non è possibile che il ministro Franceschini non sapesse che le assemblee avrebbero potuto comportare il rischio di aperture ritardate. A Roma l’assemblea è stata chiesta regolarmente l’11 settembre e regolarmente autorizzata dal soprintendente, con largo anticipo. Vorrei inoltre ricordare al ministro che i beni culturali già stanno nella legge che regolamenta i servizi pubblici essenziali».
Tutto inutile. A sera, finito il consiglio dei ministri, l’ineffabile Franceschini annuncia: «Il decreto legato alla vicenda del Colosseo prevede che sia aggiunta ai servizi pubblici essenziali anche l’apertura dei musei». Inutile anche lo sguardo fuori dai confini patri: «Iniziative analoghe avvengono in tutti i paesi d’Europa — ricordano Meloni, Giuliana Guidoni della Cisl Fp ed Enzo Feliciani della Uil Pa — ricordiamo il caso dei lavoratori della National Gallery di Londra, in mobilitazione da diversi mesi contro la privatizzazione dei servizi, o i lavoratori della Tour Eiffel a Parigi, che l’anno scorso hanno chiuso per ben tre giorni il monumento più visitato di Francia. Senza che a nessuno degli esponenti politici o dei media di questi paesi sia venuto in mente di mettere in discussione i diritti fondamentali dei lavoratori»