L’urbanistica e l’attività edilizia sono materie che il cittadino spesso considera “ostiche”, da lasciare alla politica e ai tecnici anche perché ad esse vengono associati talvolta affari poco trasparenti, speculazioni, vicende giudiziarie.
Scrivere di questi argomenti su una rivista come Poliscritture fa sorgere qualche incertezza. Non tanto per l’argomento in sé, dal momento che ci siamo detti più volte di voler affrontare a 360 gradi i nodi della società in cui viviamo, quanto per la prospettiva da cui descrivere ciò che accade a Cologno Monzese che non credo sia molto diverso da quanto avviene in altre città italiane.
Eppure quale argomento migliore per affrontare, in concreto, il rapporto luoghi/non luoghi parlando degli spazi in cui viviamo, del rapporto costruito/non costruito e della sostenibilità dello sviluppo delle nostre città. Cercando risposte ad una domanda che molti amici e compagni mi hanno fatto più volte: “Ma le nostre città devono ancora crescere e svilupparsi?”.
A Cologno Monzese negli ultimi mesi l’Amministrazione sta approvando diversi piani urbanistici che modificheranno zone importanti della città. Come in altre città italiane gli amministratori (di sinistra) sostengono che si tratta di progetti importanti che bisogna approvare per garantire risorse al bilancio comunale (si incassano gli oneri d’urbanizzazione), per riqualificare le periferie (Cologno pur essendo hinterland e, quindi, periferia per definizione, ha le sue banlieuse dove io e altri redattori di Poliscritture abbiamo vissuto da ragazzi e da adulti la nostra militanza politica) e per ottenere (grazie alle convenzioni con i costruttori) un po’ di alloggi da affittare agli sfrattati.
Un’altra motivazione è che ormai la legislazione urbanistica in Lombardia più che nelle altre regioni, è stata fortemente cambiata dal governatore Formigoni tanto che la “ deregulation”, ossia l’eliminazione dei “lacci e lacciuoli” che ostacolerebbero la possibilità di costruire, è la nuova regola. Di conseguenza, prima che le cose peggiorino ancora (con la nuova legge regionale approvata quest’anno i Piani Regolatori vanno in soffitta e saranno sostituiti entro 3-4 anni dai Piani per il Governo del Territorio) è meglio fare in fretta, approvando progetti che tra un pò di tempo potrebbero essere ancora più permissivi e favorevoli ai costruttori.
Cologno ha un Piano Regolatore approvato nel 1998 (allora io ero assessore all’urbanistica). Il Piano è stato lo sbocco di una stagione politica che voleva porre un freno al consumo di aree verdi, creare due grandi parchi metropolitani per tutelare le ultime aree agricole e dotare una città, cresciuta caoticamente negli anni ’60, di spazi e servizi pubblici. Proprio per non consumare nuovi spazi si era puntato tutto sul riuso delle aree dimesse da riqualificare.
Uno dei principi fondanti del Piano era proprio quello del rapporto tra volumi edificabili e quantità di aree per servizi pubblici da cedere all’amministrazione quando si costruisce nei cosiddetti “comparti d’intervento strategico”.
Il PRG ha fissato delle quantità ben precise che garantiscono ampi vantaggi economici per gli operatori. I volumi sono stati calcolati valutando attentamente il rapporto costi/benefici per i costruttori e definendo un rapporto preciso tra volumi edificabili e quantità di aree per servizi pubblici.
L’attuazione del Piano regolatore è stato il principale motivo di scontro che ha portato nel 2001 alla spaccatura nel centro-sinistra (DS, Rifondazione, PdCI) e il Sindaco Milan (in rotta con il suo partito, il Partito Popolare) che insieme ai Verdi (che a Cologno sono quasi tutti ex-PSI) e allo SDI diede vita ad una giunta con Forza Italia proprio per rendere più “flessibile” la politica urbanistica. Il PRG veniva considerato troppo “rigido e dirigista”.
Nel 2002 il Consiglio Comunale approva una variante che cancella i contenuti più importanti del Piano Regolatore approvando il “Documento d’Inquadramento”, previsto da una Legge Regionale del 1999.
Sulla carta, l’obiettivo di questa legge è quello di perseguire un generale miglioramento della qualità urbana e una migliore dotazione dei servizi pubblici. A Cologno però, la qualità urbana da raggiungere è ampiamente indicata dal PRG. Se ne deduce che l’applicazione di questa legge dovrebbe migliorare ancora di più e non peggiorare questa qualità.
In realtà quello approvato è stato un falso documento strategico, collocato sopra e a lato del Piano Regolatore, non vincolante ma variabile continuamente, è una foglia di fico che doveva servire ad approvare qualche Programma Integrato d’Intervento presentato dai proprietari di aree, anche e soprattutto, in variante al PRG. Con i suoi contenuti generici si è introdotta una variante continua fuori dai meccanismi di controllo del PRG.
Nel 2004 Cologno vota. Il centro-sinistra si presenta con due candidati: vince quello sostenuto da DS e Margherita; l’altro candidato, sostenuto dal Forum cittadino (Rifondazione, Comunisti Italiani e tre liste civiche) perde per pochi voti. La partecipazione attiva dei cittadini alle scelte urbanistiche è una delle principali differenze tra i due schieramenti.
Invece di revocare subito il Documento approvato nel 2002 dandosi rapidamente nuove regole per la gestione del territorio e la tutela del verde, la giunta lascia ai privati il compito di disegnare il territorio e il futuro della città rinunciando al diritto-dovere di governare il territorio. Si approvano Progetti urbanistici presentati dai privati, uno alla volta, utilizzando le regole che due anni prima tutti a sinistra avevano contestato, con disegni che ribaltano le previsioni del PRG senza avere più un riferimento generale. Questi progetti incrementano di oltre il 10% la capacità totale prevista per l’edilizia abitativa. Di questo passo si costruirà il doppio di quanto prevede il PRG!
Di fronte alle critiche mosse dal pezzo di centro-sinistra che è all’opposizione il Sindaco DS “mette una pezza” facendo approvare un nuovo Documento d’inquadramento che elimina gli aspetti più negativi del precedente ma non modifica l’orientamento complessivo della politica urbanistica che, come dichiarato dal Sindaco, deve fare i conti con un quadro generale che è completamente cambiato favorendo i privati a discapito delle amministrazioni pubbliche. La conseguenza di questo atteggiamento è l’accettazione dei piani urbanistici presentati dai singoli costruttori cercando di “massimizzare l’interesse pubblico” nelle trattative condotte per stipulare le convenzioni. Nel concreto quello che si verifica è che i privati ottengono consistenti incrementi dei volumi da costruire e in cambio realizzano qualche opera pubblica facendo anche degli sconti all’amministrazione. In questo modo però si premia la rendita di posizione con il vertiginoso aumento del valore delle aree edificabili (grazie agli aumenti di volume) e i profitti dei costruttori che vendono a prezzi sempre più alti anche per recuperare quanto offerto (in termini di servizi) al Comune.
La sostanza politica è tutta qui, nella differenza abissale tra una sinistra che quando amministra accetta passivamente le nuove regole urbanistiche fatte da altri. In realtà bisogna evidenziare che settori consistenti del centro-sinistra a livello nazionale condividono la politica urbanistica avviata dal centro-destra sostenendo che è finita l’epoca della pianificazione pubblica del territorio (la legge urbanistica italiana era una delle più avanzate a livello europeo ma è stata demolita negli ultimi vent’anni soprattutto nelle parti che riguardano il regime dei suoli e l’esproprio per pubblica utilità) e che occorre lasciare spazio al mercato e alla libera iniziativa.
I sindaci di sinistra invece dovrebbero contribuire a creare un movimento che si batta a livello nazionale per cambiare in meglio queste leggi senza subirne passivamente gli aspetti negativi. Questo fa parte di una battaglia politica che bisogna fare orientando e condizionando le scelte dell’Unione a cominciare dalla prossima campagna elettorale.
Alcune cose però si possono fare nelle singole città e il caso di Cologno può essere assunto come paradigma.
I piani urbanistici devono riguardare aree dismesse e/o da riqualificare e non aree libere. Nel caso di aree industriali dismesse devono salvaguardare l’indirizzo produttivo e prevedere l’inserimento di funzioni d’eccellenza rispettose dell’ambiente.
L’applicazione del cosiddetto “standard qualitativo” (la costruzione di opere quando mancano le aree da cedere come spazio pubblico) e della monetizzazione non devono essere generalizzati ma valutati caso per caso in relazione all’effettiva dotazione di aree per servizi pubblici nei comparti d’intervento e nei quartieri circostanti.
Il Comune deve considerare prioritarie le proposte che offrono soluzioni al problema dell’emergenza abitativa (con quote significative di edilizia convenzionata, accessibile ad anziani, giovani coppie e nuclei familiari a basso reddito o costituiti da single).
Le proposte degli operatori dovranno essere coerenti con i documenti comunali riguardanti l’inquinamento acustico ed elettromagnetico e il risparmio energetico. Dimostrata tale coerenza, l’Amministrazione potrà concedere incrementi volumetrici a quei progetti che incentivano la qualità e la sostenibilità ambientale utilizzando le tecniche della bioedilizia, del risparmio energetico e la permeabilità del suolo.
C’è infatti tutto un ragionamento politico da riprendere e sviluppare: quello della casa come servizio sociale. Mi rendo conto che questo è un tema considerato oggi, anche a sinistra, quanto meno demodé o “in odore di comunismo”. Eppure bisogna avere il coraggio di riprenderlo da un lato per individuare strumenti di politica pubblica (reperire quote di edilizia a prezzi calmierati/convenzionati per anziani, giovani coppie, ottenere case a canone sociale per studenti, lavoratori precari, ecc.) e dall’altro per affrontare i temi del disagio sociale (gli spazi di aggregazione, i luoghi per la partecipazione e l’autonomia dalla famiglia) che proprio da una diversa organizzazione ambientale delle città possono trovare risposte.