«Il summit di New York. "Bisogna invertire la rotta", tutti d’accordo al vertice Onu sul riscaldamento globale. Ma Obama ha le mani legate. Gli Usa, in pieno boom petrolifero, non firmeranno trattati internazionali». Il manifesto, 24 settembre 2014
Nella time line dei summit ambientali quella di ieri a New York è stata una tappa più che altro simbolica in attesa del vertice «di lavoro» in programma a Parigi a fine 2015 da cui dovrebbe scaturire un vero programma. Dal quartiere generale Onu, allagato durante l’uragano Sandy due anni fa, il segretario generale Ban Ki-Moon ha dichiarato che è essenziale che il mondo diventi carbon-neutral entro la fine del secolo. Sul podio ieri si sono succeduti oratori come il sindaco di New York Di Blasio, Al Gore e Leonardo di Caprio, ognuno ha parlato degli effetti distruttivi ormai incontrovertibili di un clima in uno stadio avanzato di mutamento e del tempo ormai in scadenza per agire.
Ma il summit sul clima ha visto il presidente degli Stati Uniti in una posizione fin troppo consueta. Obama ha esortato i 125 capi di stato che hanno accolto l’invito del segretario Ban Ki-Moon, a «intraprendere passi concreti» per limitare le emissioni serra, ribadendo che non agire oggi sul riscaldamento globale equivarrebbe a un tradimento delle generazioni future. Purtroppo anche questa volta, come in tanti precedenti consessi, i leader in platea hanno lecitamente potuto chiedersi da che pulpito è arrivata la predica.
Il fatto è che dalla disfatta di Kyoto la posizione americana sul clima è stata segnata dall’impotenza se non dalla colpevole inerzia. Il protocollo di Kyoto venne sottoscritto nel 1997 da Bill Clinton ma non fu mai ratificato da un congresso ostile e fortemente influenzato dalle potenti lobby petrolifere Usa. A quella sconfitta ne seguì una incassata personalmente da Obama con il nulla di fatto a Copenhagen nel 2009, all’inizio del suo mandato.
Le prospettive per Parigi non si profilano migliori. La firma di un accordo internazionale vincolante richiede una maggioranza di due terzi nel parlamento americano. Impensabile nell’attuale clima politico che fra meno di due mesi potrebbe addirittura vedere entrambe le camere in mano a un partito che sposa ufficialmente il negazionismo climatico. Fra i principali ostacoli alle effettive riforme spicca quindi un sostanziale eccezionalismo americano per cui gli Usa non hanno ad esempio mai sottoscritto i trattati internazionali contro la discriminazione delle donne e per l’eliminazione della tortura, delle mine anti-uomo e delle bombe a grappolo. In ognuno di questi casi l’argomento ufficiale è stata la tutela della prerogativa «indipendente» degli Stati Uniti.
Precedenti che non depongono certo a favore della battaglia contro le emissioni atmosferiche, dove sono in gioco miliardi di fatturati e profitti industriali. Obama ha quindi avuto un bel esortare ma la realtà è che ha le mani legate. Eppure senza una piena partecipazione americana non sono realistiche le prospettive per invertire la rotta. Il presidente Usa ieri ha rimandato l’annuncio di nuovi obiettivi a lungo termine al 2015. John Podesta, segretario per il clima e l’energia, ha confermato che bisognerà aspettare il primo trimestre del prossimo anno.
Obama si è dunque limitato a dichiarazioni di generico intento e a ricordare le sue recenti riforme come le normative varate a giugno per il contenimento delle emissioni e la riduzione del 30% entro il 2030 dell’inquinamento delle centrali termiche a carbone rispetto ai livelli del 2005. Un passo concreto che gli è valso l’aperta opposizione di molti esponenti, anche democratici, degli stati in cui l’industria carbonifera è più forte. E questo è il discorso emerso come centrale a New York. Tutti gli intervenuti hanno infatti ripetuto che una efficace politica ambientale presuppone una effettiva riforma economica, che non può esserci progresso sul clima senza una fondamentale revisione delle pratiche industriali. Nelle manifestazioni popolari organizzate alla vigilia del summit Naomi Klein aveva ribadito il concetto di sostanziale «incompatibilità ambientale» dell’imperante liberismo capitalista. Un concetto ripreso anche da molti relatori all’interno del palazzo di vetro, come Leonardo Di Caprio. «Dobbiamo smettere di dare agli inquinatori la licenza che hanno avuto nel nome del libero mercato — ha detto l’attore rivolto ai capi di stato — non meritano i nostri contributi fiscali ma semmai il nostro attento scrutinio». Un idea ribadita anche dall’ex presidente messicano Felipe Calderón che ha ricordato che globalmente il comparto energetico gode ancora di 600 miliardi di dollari di sussidi e incentivi pubblici rispetto ai soli 100 a favore delle energie rinnovabili.
È una realtà particolarmente evidente nel paese ospite. Nonostante i nuovi limiti imposti al carbone infatti, gli Stati Uniti sono nel pieno del maggiore boom petrolifero dagli anni 40, un enorme revival degli idrocarburi che ha il tacito appoggio di un’amministrazione che ha autorizzato un numero record di esplorazioni off shore. Grazie a nuove tecniche di estrazione super inquinanti come il fracking, sono diventate accessibili enormi riserve di gas e petrolio. Acqua e agenti chimici iniettati ad alta pressione hanno «liberato» metano profondo e petrolio. Nuovi oleodotti si snodano dai pozzi del Dakota e dalle sabbie bituminose del Canada verso le raffinerie del Golfo del Messico.
Il boom sta trasformando l’America da importatrice a esportatrice netta di idrocarburi. Le importazioni infatti sono diminuite del 50% solo negli ultimi 7 anni e il paese sarebbe praticamente autosufficiente se non fossero le stesse compagnie petrolifere a non volerlo. È di gran lunga più lucroso gestire un margine di scarsità, non saturare il mercato interno e ottimizzare invece quote di gas e petrolio su quello internazionale. In queste condizioni si prevede un aumento del 60% della domanda di idrocarburi nei prossimi 20 anni — l’esatto opposto di ciò che è stato auspicato nei discorsi di ieri.
In questa sbornia di carbonio, il ruolo politico è stato di colpevole acquiescenza nel nome di un'imprescindibile ripresa economica. Ennesima conferma che forse solo quando i danni economici del mutamento climatico - il calo dei consumi nel vortice artico dello scorso inverno, ad esempio, o la drammatica siccità nel paniere californiano - supereranno i rapidi profitti petroliferi, i politici ritroveranno la «lungimiranza». Salvo poi essere troppo tardi.