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Clima, l’allarme dell’Europa
3 Dicembre 2007
Clima e risorse
La Repubblica del 7 gennaio 2007 dedica ampio spazio al rapporto europeo sul clima. Qui l’articolo di Pascal Ascot, l’intervista di Antonio Cianciullo a Barry Commoner e i servizi di Andrea Bonanni e Alberto D’Argenio

Non sappiamo quando ma il disastro arriverà

di Pascal Acot

Il rapporto della Commissione europea sul clima è abbastanza allarmista, per non dire catastrofico per i Paesi del Sud, Italia compresa: alla metà del XXI secolo i Paesi freddi del Nord dell’Europa potranno beneficiare della ricchezza del turismo, a discapito dei Paesi del Sud. Le conseguenze economiche potrebbero essere drammatiche, specialmente per l’Italia, la Grecia e la Spagna

Gli esperti stimano che le perdite dovute alla fine dei flussi turistici possano aggirarsi sui cento miliardi di euro circa. Oltre a ciò, i decessi in sovrappiù rispetto alla media, imputabili alla canicola o alle forti temperature, potranno aumentare molto, raggiungendo un totale di 87.000 casi l’anno qualora il riscaldamento medio fosse pari a tre gradi centigradi.

Ma gli esperti rendono noto anche che se la lotta contro l’emissione dei gas serra riuscisse a contenere a "soli" 2,2 gradi centigradi l’aumento della temperatura, il numero dei decessi in sovrappiù rispetto alla media potrebbe essere limitato a 36.000. Infine, le tragiche conseguenze cagionate da un eventuale innalzamento delle acque del Mediterraneo, dal degrado delle risorse ittiche e dall’aumento del numero degli incendi delle foreste avrebbero un costo quantificabile anch’esso in decine di miliardi di euro.

L’accuratezza della maggior parte di queste cifre deve indurre ad accogliere con una certa prudenza questo documento. Da un lato perché le previsioni climatiche su più decenni non sono molto affidabili: i climatologi non sanno ancora con precisione se l’aumento della nuvolosità amplificherà l’effetto serra trattenendo i raggi infrarossi di calore che la Terra potrebbe riflettere verso lo spazio profondo o se, al contrario, la copertura nuvolosa ispessita ci proteggerà dall’irraggiamento di calore del Sole. Dall’altro lato perché non è possibile prevedere con esattezza, sulla base della proiezione nel futuro della situazione contingente, quali saranno le reazioni politiche degli Stati europei in materia di lotta contro gli effetti del riscaldamento, considerata la tragica instabilità di alcuni e tenuto conto delle difficoltà ascrivibili alla povertà in tutta la parte occidentale e meridionale del Mediterraneo.

Ciò nondimeno, il problema sollevato da quanto abbiamo potuto conoscere del documento dell’Unione Europea, è da valutare con grande serietà. Se anche non siamo certi della velocità e dell’impatto generale del riscaldamento, sappiamo però che esso è in procinto di aver luogo e sappiamo anche che se non siamo in grado di scongiurarne tutti gli effetti, possiamo forse renderli meno gravi. Il merito dell’Unione Europea, in questo caso, è quello di mettere in allerta l’opinione pubblica sul fatto che al di fuori delle grandi mete turistiche, saranno i Paesi più fragili ad esserne maggiormente colpiti.

Per quanto riguarda il turismo, colpiscono le cifre proposte: secondo il rapporto si dirigeranno verso il Sud per le loro vacanze soltanto cento milioni di persone l’anno. È evidente quindi che il problema sollevato è ancora più grave da un punto di vista economico: nei Paesi direttamente interessati si impone una seria vigilanza. Il problema deve essere affrontato sensatamente. La situazione, tuttavia, non è nemmeno lontanamente paragonabile ai problemi che le risorse idriche della regione pongono e porranno. La quantità di acqua disponibile lungo il bacino del Mediterraneo è più o meno costante. Al contrario, la crescita demografica (in Egitto, in Turchia, in Algeria e in Marocco), lo sviluppo delle attività agricole, industriali e turistiche – i campi da golf si moltiplicano ovunque – provocano un aumento sistematico della domanda. Il riciclaggio delle acque sporche non è sufficientemente rapido e lo "stress idrico" segna pesantemente e duramente la vita degli abitanti del Maghreb e del Medio Oriente. Pertanto, in questa regione ogni abitante dispone mediamente di meno di 2.000 metri cubi di acqua ogni anno, compresi gli usi per l’agricoltura e l’industria.

Al contempo, gli scontri e i combattimenti ai quali assistiamo per il possesso delle risorse idriche nel Medio Oriente potrebbero – ahimè! – intensificarsi: basti pensare che già oggi un israeliano consuma il quadruplo dell’acqua di cui usufruisce un palestinese e che l’accordo di Taba firmato a Washington nel 1995 prevede di concedere l’82 per cento delle acque della Cisgiordania agli israeliani e il rimanente ai palestinesi. Analoghi scontri per l’acqua sono da temersi tra Turchia, Siria e, a termine, anche l’Iraq, tutti Paesi attraversati dall’Eufrate, fiume controllato dai turchi nell’Anatolia sud-orientale.

In seguito a questo rapporto, possiamo attenderci nuove raccomandazioni in materia di risparmio delle risorse idriche e più in generale in tema di riduzione delle emissioni di gas serra. Tali raccomandazioni resteranno tuttavia lettera morta se basilari e fondamentali decisioni politiche non saranno prese per tutti gli anni a venire, in tema di pace nella regione e di aiuti allo sviluppo dei Paesi più poveri del bacino del Mediterraneo.

L’autore, filosofo e storico della scienza, ha scritto fra l’altro "Storia del clima – Dal Big Bang alle catastrofi climatiche"

Traduzione di Anna Bissanti

Europa 2070, la catastrofe del clima

di Andrea Bonanni e Alberto D’Argenio

bruxelles - Sdraio e ombrelloni sul Mar Baltico, ulivi e pomodori nelle Ardenne, tonnare o spadare al largo delle coste scozzesi e svedesi. Alluvioni, desertificazione, erosione delle coste e un’ecatombe di morti per il caldo eccessivo nei Paesi del Mediterraneo, che oggi sono il paradiso dei turisti e dell’agricoltura di qualità. Sono questi i risultati a cui giunge Peseta, un catastrofico studio voluto dalla Commissione europea per analizzare "il costo dell’inazione" in materia di cambiamenti climatici. Il rapporto dovrebbe accompagnare un ampio pacchetto di riforme in campo energetico che la Commissione si accinge a proporre ai governi con lo scopo di ottenere una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di altri gas ad effetto serra, responsabili per il surriscaldamento del pianeta.

L’obiettivo delle proposte avanzate dalla Commissione è una riduzione delle emissioni pari al 30 per cento entro il 2020 per arrivare al 50 per cento entro il 2050.

Dallo studio emerge che proprio i Paesi del Sud dell’Europa, come Italia, Spagna e Grecia, che oggi sono i meno attivi nella riduzione delle emissioni nocive, verranno maggiormente danneggiati da un surriscaldamento del clima. L’Europa meridionale, scrive il rapporto, soffrirebbe di «siccità, calo della fertilità del suolo, incendi ed altri fattori indotti dal cambiamento climatico».

Peseta considera due scenari. Lo scenario A ipotizza che, di fronte ad una generale inazione, le emissioni di anidride carbonica triplichino entro la fine del secolo, inducendo un surriscaldamento medio di tre gradi nel periodo 2071-2100 rispetto al periodo 1961-1990. Il secondo scenario prevede che, grazie ad iniziative isolate di contenimento delle emissioni, la concentrazione di anidride carbonica si limiti a raddoppiare provocando un aumento medio della temperatura di 2,2 gradi.

Gli effetti sulla salute, secondo lo studio, che però precisa di non avere preso in considerazione il fattore di acclimatamento della popolazione, sarebbero devastanti. Il maggior numero di decessi dovuti al calore, secondo Bruxelles, supererebbe nettamente il calo di vite perdute per colpa del gelo. Lo scenario A prevede un aumento di 86 mila morti all’anno. Lo scenario B conterrebbe i danni a 36 mila vittime in più.

Le cose in Europa andrebbero meglio per gli agricoltori. Ma solo per quelli del Nord, che vedrebbero aumentare i loro raccolti in proporzione variabile dal 3 al 70 per cento. Mentre nelle regioni del Sud il calo della produzione agricola varierebbe da un meno 2 ad un meno 22 per cento. Anche gli stock di pesce, pur colpiti dall’acidificazione delle acque marine, si dovrebbero spostare verso nord.

L’innalzamento del livello dei mari comporterebbe un grave fenomeno di erosione delle coste. L’acqua salirebbe da 22 a96 centimetri nello scenario A, da 17 a74 centimetri nello scenario B. Il costo dell’erosione, se non si corresse ai ripari con misure di adattamento, potrebbe arrivare a 42 miliardi di euro nello scenario peggiore e a 9 miliardi di euro per quello meno catastrofico. I danni causati dalle alluvioni aumenterebbero tra il 19 e il 40 per cento per il bacino dell’Alto Danubio, e tra l’11 e il 14 per cento per quello della Mosa.

Il cambiamento climatico influirebbe anche sul turismo. La migrazione di villeggianti dal Nord al Sud Europa rappresenta oggi un sesto del flusso turistico mondiale e riguarda ogni anno 100 milioni di persone che spendono una media di 100 miliardi di euro.

Ma tutto questo potrebbe cambiare. «La zona con eccellenti condizioni climatiche, che è attualmente intorno al Mediterraneo (in particolare per il turismo balneare) - scrive il rapporto - si sposterà a nord, forse fino al Mare del Nord e al Baltico. Lo stesso vale per il rapporto tra sviluppo turistico e disponibilità dell’acqua». Di fronte alla catastrofe estiva, l’unica consolazione che lo studio concede agli operatori turistici del Sud Europa è che «comunque, le condizioni climatiche in primavera e autunno dovrebbero migliorare».

Commoner :"C’è una sola speranza cambiare le tecnologie"

Antonio Cianciullo

ROMA - «In Europa ve la ricordate bene l’estate del 2003. Il termometro che arrivava ai 40 gradi, l’agricoltura in ginocchio, le ondate di calore che si abbattevano senza tregua sulle città. L’intero continente è uscito stordito da quell’esperienza traumatica, risvegliandosi dall’incubo con 35 mila cittadini in meno, 35 mila vittime del cambiamento climatico. Ebbene quel disastro che, secondo alcune ricerche, poteva capitare solo una volta nell’arco di secoli, è destinato ora a diventare la norma». Nel suo studio di New York, Barry Commoner, l’ecologo sui cui libri si sono formate generazioni di ambientalisti, non si stupisce per il rapporto della Commissione europea. Nel 1971, nel suo Il cerchio da chiudere, aveva anticipato la necessità di governare il ciclo dei gas serra e adesso i numeri gli danno ragione.

Lo studio ordinato dall’Unione europea ipotizza una catastrofe da 11 mila morti l’anno entro un decennio: le previsioni diventano sempre più pessimiste anno dopo anno. Le vecchie stime erano sbagliate o volutamente sottovalutate?

«L’attenzione si era concentrata sulle conseguenze graduali del global warming, come se fossimo di fronte a un meccanismo che si andava alterando in maniera preoccupante ma regolare. Ora invece ci troviamo di fronte all’altra faccia della medaglia: le accelerazioni improvvise. Sterzate brusche, imprevedibili nella loro esatta dinamica, che portano al moltiplicarsi delle ondate violente di calore e degli uragani».

Forse c’è stato anche un ritardo culturale. Abituati alle fluttuazioni fisiologiche del tempo non abbiamo capito subito cosa significa una fluttuazione del clima.

«Esattamente. Non si tratta di una stagione turistica che salta o di qualche raccolto rovinato. E’ cambiata l’energia in gioco: il calore in più trattenuto dall’atmosfera modifica la portata degli eventi estremi aumentandone il numero e l’intensità. Gli scenari che oggi vengono fatti propri da istituzioni importanti come la Commissione europea non fanno che dare un volto preciso a una tendenza già chiara da tempo».

Eppure è mancata la capacità di reazione. E ancora oggi alle grida d’allarme non fa seguito un’iniziativa concreta per ridurre l’emissione dei gas serra. Vuol dire che cambiare rotta è troppo costoso?

«E’ vero il contrario. E’ troppo costoso non agire. Già il rapporto Stern prevedeva una perdita del 20 per cento del prodotto mondiale lordo per colpa del cambiamento climatico. Mentre la rivoluzione tecnologica in direzione delle fonti energetiche rinnovabili comporta un guadagno».

Non le sembra di esagerare un po’?

«No, sono investimenti che danno profitti a breve. Anche il singolo cittadino può sperimentare come l’uso dell’energia solare permette di ridurre la sua bolletta elettrica. E nei paesi in via di sviluppo il mercato potenziale è enorme: per chi abita in un villaggio non collegato alla rete elettrica il vantaggio delle rinnovabili è ancora più evidente e immediato».

Il costo di base delle tecnologie pulite resta però nelle mani dei ricchi. Senza un investimento consistente nei paesi industrializzati non si riuscirà a tagliare i gas serra che minano la stabilità climatica.

«Non ci sono alternative. La diagnosi è chiara: per salvare le nostre società e le loro economie bisogna uscire dalla dipendenza dal petrolio e dai combustibili fossili. Bisogna lanciare il fotovoltaico e le rinnovabili, aumentare l’efficienza energetica e trasferire il traffico dalla gomma al ferro».

I sei anni di presidenza Bush non sono andati in questa direzione.

«Ma, nonostante le resistenze della Casa Bianca, le maggiori industrie, comprese quelle del petrolio e della chimica, hanno riconosciuto la necessità di frenare il cambiamento climatico. E questa necessità si può trasformare in una grande opportunità. Il sistema produttivo degli Stati Uniti sta perdendo colpi, subisce una concorrenza a cui, utilizzando i vecchi schemi, non riesce a far fronte: la svolta tecnologica imposta dagli sbalzi climatici è l’occasione per un rinascimento industriale».

Con che tempi?

«Quello che manca sono i programmi nazionali di riconversione industriale ed energetica. Se c’è una decisione politica, il risultato può essere raggiunto in cinque anni».

L’augurio per il 2007?

«Che il nuovo Congresso americano riesca a chiudere il capitolo della guerra in Iraq, legata alla vecchia logica del controllo del petrolio, e ad aprire la battaglia contro i cambiamenti climatici».

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