COPENAGHEN - Doveva essere un blitz. L´intesa tra i potenti del pianeta che dettano i tempi della politica e, aprendo il portafoglio, costruiscono le basi per un accordo globale sul clima a misura di chi è arrivato per ultimo. Ma la conferenza di Copenaghen, che sembrava chiusa dopo il patto al ribasso tra Stati Uniti e Cina, si è riaperta a sorpresa in nottata. L´assemblea Onu ha deciso di non fermarsi di fronte al fatto compiuto continuando fino all´alba a macinare proteste contro la cancellazione dei target per il taglio dei gas serra. Poi, quando tutto sembrava finito e il presidente danese si era convinto di aver sedato la protesta, il dibattito si è riaperto proseguendo a oltranza fino al primo pomeriggio.
A guidare la rivolta di un fronte composto da paesi dell´America latina e dell´Africa e dalle piccole isole sono stati sette irriducibili che hanno resistito alle pressioni rinunciando ai benefici economici derivanti all´accordo: Venezuela, Nicaragua, Cuba, Bolivia, Costarica, Sudan, Tuvalu. Il dissenso è stato messo agli atti e ha bloccato l´accordo che, in base al meccanismo Onu, prevede il consenso unanime.
Alla fine l´intesa è stata trovata con un espediente tecnico. L´assemblea delle Nazioni Unite «ha preso nota» di un documento chiamato Accordo di Copenaghen. Sono due pagine e mezzo, 12 punti che contengono solo due numeri. Il primo è la soglia di crescita della temperatura da non sfondare a fine secolo: 2 gradi. Il secondo riguarda i fondi da mettere a disposizione per il trasferimento di tecnologie pulite ai paesi meno industrializzati: 10 miliardi di dollari l´anno subito, che verranno progressivamente aumentati fino a diventare 100 miliardi l´anno nel 2020.
L´Accordo di Copenaghen, proposto dagli Stati Uniti e dal Basic (Brasile, Sudafrica, India e Cina) è stato appoggiato con una certa sofferenza dall´Unione europea. «Non nascondo la mia delusione», ha detto Josè Barroso, presidente della Commissione europea, «ma questo è stato il primo di molti altri passi». «Il nostro futuro non è in vendita, non accettiamo i 30 denari», ha dichiarato invece Apisai Ielemia, il presidente di Tuvalu, riferendosi ai 30 miliardi di dollari in tre anni messi a disposizione dai paesi ricchi.
E anche sul fronte italiano si registrano malumori. Per il ministro dell´Ambiente Stefania Prestigiacomo si tratta di un «accordo al ribasso: la presenza di Obama, che doveva rappresentare la svolta di questa conferenza, non ha sbloccato la situazione». Per i senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante l´accordo «non definisce alcun criterio sostanziale per verificare le azioni e i risultati dei singoli paesi: è una battuta d´arresto nella lotta al global warming».
Ma la partita non è chiusa. Il segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon ha annunciato che si andrà avanti per cercare l´accordo vincolante e l´assemblea delle Nazioni Unite ha votato due documenti che impegnano a proseguire le trattative. Entro gennaio i paesi industrializzati dovranno stabilire i target di riduzione di gas serra. E a dicembre, alla conferenza sul clima di Città del Messico, con gli Stati Uniti che probabilmente avranno adottato una legge nazionale per il taglio della CO2, Onu ed Europa torneranno alla carica per ottenere target legalmente vincolanti. Il mini accordo di Copenaghen potrebbe crescere. Ma l´attesa non è gratis: il debito climatico aumenta giorno per giorno.
Vedi l'appello promosso da Riccardo Petrella e Carla Ravaioli.