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Luciano Gallino
Cittadini di serie B lasciati senza sostegno
22 Febbraio 2009
Capitalismo oggi
La rete del welfare italiano è ormai piena di buchi e inutile: gli esempi europei ci dicono che le alternative ci sono. Da la Repubblica, 22 febbraio 2009 (m.p.g.)

La situazione delle persone che in numero crescente cercano con urgenza un’occupazione qualsiasi, anche se precaria, sgradevole e mal pagata, rivela come in Italia la rete di cui un Paese avanzato dovrebbe disporre per proteggere i suoi cittadini dai guai economici sia piena di buchi.

Molte di esse non sono più giovani; altre non hanno mai lavorato in azienda ma a causa di vicende familiari si son trovate all’improvviso senza fonti di sussistenza; quasi tutte hanno competenze professionali superiori a quelle richieste per lavorare come addetti alle pulizie, al lavaggio delle pentole in un ristorante o come badanti. Per avere il tempo e la voglia di trovare un’occupazione migliore, in un periodo di aumento drammatico e prolungato della disoccupazione, avrebbero bisogno d’un sostegno al reddito che la nostra rete di protezione sociale assicura poco e male.

I suoi buchi sono di diversa natura. Innanzitutto, per avere titolo a qualche sorta di sostegno, tipo la cassa integrazione, il sussidio di mobilità o l’indennità di disoccupazione, bisogna prima aver lavorato per un certo periodo alle dipendenze di un’impresa; un’impresa che per di più deve avere certe caratteristiche e dimensioni, altrimenti non può chiedere che i suoi dipendenti ricevano l’uno o l’altro dei sostegni indicati.

Va aggiunto che questi, a paragone di altri Paesi europei, sono modesti e, per quanto riguarda la condizione di disoccupato, di durata relativamente breve. In Danimarca, ad esempio, l’indennità di disoccupazione può arrivare al 90 per cento del reddito degli ultimi tre mesi di lavoro, con un tetto annuo di 20.000 euro, e può venir percepita per anni.

Da noi uno può arrivare al massimo al 60 per cento, e per pochi mesi.

Un altro buco della nostra rete di protezione sociale è l’indigenza delle politiche attive del lavoro, quelle che offrono alla persona in cerca di occupazione corsi di qualificazione, consulenze professionali, ricerca sistematica di posti disponibili.

Non va taciuto che sotto il profilo etico-politico tali politiche rappresentano una combinazione autoritaria di bastone e di carota: se non accetti il posto che ti offriamo, ti taglieremo l’indennità che attualmente ricevi.

Resta però vero che per molti individui in cerca di occupazione esse offrono un aiuto efficace per superare periodi anche lunghi di difficoltà. In tale ambito i nostri Centri per l’impiego fanno quello che possono, poiché dispongono di risorse assai limitate. La quota di Pil che l’Italia destina alle politiche attive del lavoro è infatti minima rispetto a vari altri Paesi europei, per non parlare di quelli scandinavi.

Il quesito al quale ci pone davanti la crisi economica in atto, che per anni moltiplicherà il numero dei disperati pronti a fare un lavoro qualsiasi, pur a condizioni pessime, è se il reddito necessario per vivere debba venire sempre e necessariamente collegato al lavoro. In altre parole la crisi rilancia in sostanza la discussione sulla opportunità di introdurre un reddito di cittadinanza. Versato dallo Stato, dovrebbe essere un reddito modesto ma sufficiente per coprire i bisogni di base, al quale una persona ha diritto indipendentemente dalla sua posizione lavorativa.

Un reddito di base, versato senza condizioni di alcun genere, ha come funzione principale quella di porre la persona in una posizione di ragionevole sicurezza socio-economica. Accresce la sua libertà di scegliere un lavoro confacente alla sua situazione personale e familiare. Riduce l’ansia per l’avvenire suo e della famiglia.

Sulle difficoltà, le possibili conseguenze negative, i costi di un reddito di base esteso a tutti sono stati scritti innumerevoli saggi e volumi. Altrettanti sono stati scritti per dimostrarne i benefici. Si noti che l’idea di un reddito di base non è esattamente, o meglio non è soltanto un’idea di sinistra. Alcuni dei suoi più autorevoli sostenitori, come gli economisti premi Nobel Friedrich Hayek e James E. Meade, erano liberali.

Né questi autori erano mossi esclusivamente da istanze morali o di giustizia sociale. Essi rilevavano piuttosto che l’eccesso di offerta di occupazioni poco qualificate, sottopagate e intrinsecamente precarie, e la relativa moltiplicazione di lavoratori malcontenti in conflitto tra loro, finirebbero inevitabilmente per generare tensioni sociali insostenibili.

La corsa di ex dipendenti disoccupati e di neolavoratrici per necessità verso occupazioni che fino a ieri erano accettate solamente da extracomunitari, quelli provenienti dalle masse dei disperati del mondo, mostra che questo è precisamente quello che sta succedendo.

È un effetto della crisi, ma dovremmo forse sforzarci di vederlo come un’occasione. Ossia come il momento adatto per allargare finalmente l’angusto dibattito sul mercato del lavoro che ha contrassegnato l’ultimo decennio a temi di più ampio rilievo per il futuro non solo economico, ma anche politico e sociale del Paese.

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