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Ferruccio Gambino
Cinquant'anni che formarono il proletariato
2 Settembre 2005
Recensioni e segnalazioni
Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, capolavoro di Edward P. Thompson, “L'analisi del mezzo secolo fra il 1780 e il 1832 illumina «l'intervento attivo dei lavoratori al farsi della storia”. Da il manifesto del 1 settembre 2005

Cinquant'anni che formarono il proletariato

Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, capolavoro di Edward P. Thompson, “L'analisi del mezzo secolo fra il 1780 e il 1832 illumina «l'intervento attivo dei lavoratori al farsi della storia”. Da il manifesto del 1 settembre 2005

In apparenza, anno migliore non avrebbe potuto scegliere il Saggiatore per pubblicare in italiano il capolavoro di Edward P. Thompson: il 1968. I due tomi di Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra si presentavano in solido cofanetto e trattavano di classe operaia, un argomento, allora, di una certa risonanza; ma il prezzo di copertina era proporzionale al numero delle pagine e all'eleganza dell'edizione. Il libro faticò a farsi largo nella selva di tascabili del tempo, tanto che nella seconda metà degli anni `70 finì nelle rimanenze scontate. E poi, perché l'Inghilterra? Non erano la Francia e gli Usa al centro del Sessantotto? La traiettoria operaia della «prima nazione industriale» appariva lontana rispetto ai canoni dello sviluppo del proletariato nell'Europa continentale, così com'era spiegato dai manuali scolastici. Scrive Thompson nella prefazione: «Io cerco di riscattare dall'enorme condiscendenza dei posteri il calzettaio povero, il cimatore luddista, il tessitore a mano `antidiluviano', l'artigiano e operaio specializzato `utopista' e perfino il seguace deluso di Joanna Southcott», domestica campagnola e profetessa di centomila diseredati. L'opera è «un gruppo di studi su argomenti collegati» più che «una narrazione consecutiva» degli anni dal 1780 al 1832. Nella prima parte, Thompson considera «le tradizioni popolari... che influirono sulla cruciale agitazione giacobina degli anni 1790-1800». Nella seconda parte passa «dalle influenze soggettive a quelle oggettive - le esperienze di gruppi di lavoratori durante la rivoluzione industriale...». Nella terza parte riprende «il filo della storia del radicalismo plebeo», e la segue, «attraverso il luddismo, fino all'età eroica al termine delle guerre napoleoniche». Infine discute «alcuni aspetti della teoria politica e della coscienza di classe negli anni `20 e `30». Così annunciata, la narrazione sembra ragionevolmente piana, ma per i lettori italiani andrebbe corredata da note esplicative e da carte tratte da un buon atlante storico.

Superati gli scogli iniziali, la lettura si fa trascinante. Da quale sorgente sgorga l'impeto della narrazione? È questa la domanda cruciale di un testo che ha incoraggiato tanti storici più giovani di Thompson a riportare alla luce le esperienze collettive degli sfruttati, liberandosi dagli schemi tradizionali. Per rispondere, si può cominciare con un particolare all'apparenza insignificante. Quando nel 1956-57 Thompson sviluppa la sua polemica sulla democrazia interna del Partito comunista britannico contro il Rapporto dei quindici commissari nominati dai vertici, ci si aspetta che il dissidente dello Yorkshire prenda posizione richiamandosi infine al principio del centralismo democratico di Lenin. Thompson spiazza tutti. Cita John Milton e la tradizione democratica britannica. Da quel momento Thompson si considera un comunista con la c minuscola (in inglese le iniziali dei sostantivi che indicano l'affiliazione a partiti e chiese sono maiuscole). Occorre dunque tornare al passato più solitario per guardare oltre il tempestoso futuro che si profila all'orizzonte. Thompson prevede una traversata del deserto durante la quale le forme organizzative del movimento operaio passeranno attraverso la stretta delle ristrutturazioni postcoloniali - un processo che, a giudizio di chi scrive, è tuttora in corso.

Sono rivelatrici della congiuntura della fine degli anni `50 le pagine che Thompson dedica ai riallineamenti provocati dalla caduta del repubblicanesimo giacobino in Inghilterra dopo l'avvento di Napoleone in Francia e la ripresa delle guerre. Diventa incolmabile il fossato che divide gli ex-riformatori, ritirati nelle loro cappelle private, dai cospiratori e dai ludditi negli ultimi dodici anni delle guerre napoleoniche. Thompson ha il merito perenne di aver dimostrato la complessità del luddismo, contro le fandonie di chi aveva ridotto un ampio e articolato movimento al semplice sabotaggio dei telai meccanici da parte di sparuti gruppi di operai disperati. Lo spazio pubblico viene rioccupato dai patrioti di tutte le gradazioni, secondo un copione destinato a ripetersi innumerevoli volte fino ai nostri giorni. Gran parte dei repubblicani riscoprono i meriti della Corona, molti recitano il mea culpa e si pentono, diventando più realisti - e antigiacobini - del re. Nel paese trionfano i benpensanti. Con grande fanfara la guardia armata dei proprietari può organizzare i suoi raduni patriottici. Ma è al diapason di questo tripudio guerrafondaio che viene suonata «la nuova nota del radicalismo». Se Napoleone è un despota, cosa dire del governo inglese che, secondo la denuncia dell'allora conservatore William Cobbett, sospende l' Habeas Corpus, incarcera senza processo, compra giornali e giornalisti, manovra il sistema bancario e il debito pubblico a suo arbitrio? Questa volta l'indignazione è particolarmente intensa a Londra e si esprime con la difesa della libertà di parola e di stampa da parte degli artigiani e delle professioni liberali.

Si tratta appunto di un movimento difensivo. Altrove, e in particolare nei distretti industriali, l'organizzazione diventa clandestina e illegale fino al ricorso alle armi, giungendo così alla soglia degli anni Venti. Poi, «demagoghi e martiri» del movimento operaio, come scrive Thompson, riconquistano lo spazio pubblico; solo così si giungerà alla limitazione legale della giornata lavorativa. Dunque, non sarà lo stalinismo, così come non fu Napoleone, a seppellire l'impulso democratico e le lotte di classe in Europa e negli altri continenti. Ma nella lezione di Thompson si dà per scontato che per anni e forse per decenni occorrerà, un'altra volta, dare battaglia politica e riconquistare pazientemente l'arena pubblica facendo a meno di un partito.

Lo studio dei cinquant'anni dal 1780 al 1832 mostra che la classe operaia non è (come vorrebbe Perry Anderson e parte della «New Left Review» da cui Thompson viene estromesso nel 1963) «un proletariato subordinato» prodotto da «una borghesia supina»; per contro, essa «fu presente al suo `farsi'», con «l'intervento attivo dei lavoratori, il grado in cui essi contribuirono, con sforzi coscienti, al farsi della storia». Coloro che faticavano non possono essere considerati soltanto come «le miriadi perdute dell'eternità». Essi nutrirono, «per cinquant'anni e con fortezza incomparabile, l'Albero della Libertà». Ma è un cinquantennio durante il quale non esistono comitati centrali, né congressi di partito o di sindacato, né tessere, né sponde giacobine all'estero, né intellettuali, con la nobile eccezione dello «sbandato» William Blake e di pochi altri, disposti a rischiare la miseria dei loro piccoli privilegi schierandola accanto a quella, ben più grave, generata dalle nuove fabbriche. In funzione antioperaia sono talvolta dispiegate più truppe che contro gli eserciti napoleonici. Eppure, alla fine del cinquantennio il proletariato riesce a imporre la rivendicazione cruciale, una giornata lavorativa limitata - e quindi la fine della delirante onnipotenza dell'imprenditore. È una legge che si affianca all'abolizione della schiavitù nelle piantagioni britanniche delle Indie occidentali. Sacrificio, clandestinità, prigione e forca, ma anche senso di una più ampia collettività in formazione e gioia del «co-spirare» sono tra le voci di un processo di differenziazione di classe e di irradiamento di nuovi atteggiamenti privi di deferenza, mentre le braccia e le menti passano inesorabilmente nel laminatoio della grande industria.

La dedizione dei proletari alla causa assume talora toni mistici, paradossalmente biforcati in atteggiamenti ateisticamente politici o ferventemente fideistici. Ma in entrambi i casi il risultato sociale si fonda sulla ricchezza dello sforzo collettivo, non sull'io acquisitivo e proprietario. Sarà pur vero che il problema per i comunisti non è quello dell'alternativa tra altruismo ed egoismo, come affermeranno poi i preoccupati Marx e Engels ne L'ideologia tedesca, ma il problema è pur sempre come vincere. La lezione del cinquantennio è semplice: fuori dal collettivo non c'è possibilità di vittoria, né si può sperare nel salvatore esterno. È un Thompson sardonico quello che riesce ad attaccare insieme il sociologo funzionalista Smelser e i burocrati di partito: «La coscienza di classe, invece, è un'invenzione malefica di intellettuali sbandati, perché tutto ciò che turba l'armonica coesistenza di gruppi che, come si dice, `svolgono ruoli sociali' diversi (e che, quindi, ritarda lo sviluppo economico) è da deprecare come `sintomo ingiustificato di disturbo'». L'armonia non è certo un segno distintivo degli anni della formazione della classe operaia in Inghilterra. Gli squilibri e gli sconquassi sociali si misurano in tutta la loro estensione imperiale, dalla distruzione della manifattura nel subcontinente indiano al massacro di Peterloo (1819) da parte dell'esercito e della guardia armata dei proprietari di Manchester.

Limitandosi di proposito all'Inghilterra, Thompson addita destini universalmente analoghi: il nostro criterio di giudizio non dovrebbe ridursi al dilemma «se le azioni di un individuo si giustifichino o no alla luce di sviluppi successivi. Dopo tutto, non siamo noi stessi alla fine dell'evoluzione sociale. In alcune delle cause perdute degli uomini della rivoluzione industriale possiamo scoprire lampi di intuizione su mali e sofferenze della società, che aspettano ancora d'essere leniti... È possibile che delle cause perdute in Inghilterra debbano, in Asia o in Africa, essere ancora vinte». Non si tratta dell'aspirazione a un mero ritorno al passato. Più che la nostalgia della comunità dissolta è l'impulso a creare rapporti sociali non solo nuovi ma anche diversi - diversi da quelli della borghesia - a scavare margini di autonomia, a tentare - sovente invano - di salvarsi dal lavoro notturno, dalla prigione-manifattura, dalla deportazione nelle colonie.

Sull'affresco di Thompson si sono appuntate critiche non peregrine a mano a mano che si sviluppavano i movimenti della fine degli anni `60 e degli anni `70. Già in un convegno di storici sociali del `73, presente Thompson, viene lamentata la scarsa attenzione dedicata alle donne nell'opera. Altri rilievi sono più circostanziati. È senz'altro una svista il fatto che nel raccontare la fondazione della London Corresponding Society (1792), ossia l'atto di nascita del dibattito operaio radicale in Inghilterra, Thompson si dimentichi di Oulaudah Equiano, rapito dai negrieri in Africa occidentale, schiavo che si è autoriscattato, scrittore e attivista dell'abolizionismo. Così spiega Peter Linebaugh, che di Thompson fu studente, nel suo fondamentale The London Hanged (Penguin, 1991, libro incomprensibilmente non ancora tradotto in italiano). Ma Linebaugh rammenta pure - a Thompson e a noi - che negli ultimi decenni del Settecento a Londra vive un proletariato atlantico: il numero dei soli africani - liberi e schiavi - oscilla tra le 10.000 e le 20.000 persone, circa il 6-7 per cento della popolazione urbana. A questo punto possiamo riprendere la descrizione di Thompson della riunione fondativa della London Corresponding Society nella quale si stabilisce un principio basilare: nessun candidato è escluso, purché risponda affermativamente a tre domande, la più importante delle quali suona così: «Sei pienamente convinto che il benessere di questi regni esige che ogni adulto in possesso della ragione, e non reso incapace da delitti, abbia un voto per eleggere un rappresentante ai Comuni?».

È una domanda attuale, che riguarda i diritti politici di milioni di immigrati in Europa e di circa 170 milioni di immigrati e nel mondo. Dopo 213 anni, forse anche Oulaudah Equiano sarebbe d'accordo che ricominciare da ca

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