«A sorpresa è arrivata l’intesa Usa-Cina sulla riduzione delle emissioni, con il gigante asiatico che per la prima volta accetta il principio di limitare le proprie. Crescono così le possibilità di un vero accordo globale sul clima. Ma alle parole devono seguire i fatti, soprattutto a Occidente».
Lavoce.info, 14 novembre 2014 (m.p.r.)
Verso Parigi con una delusione non dimenticata
Gli esperti e l’opinione pubblica ricordano ancora la grande delusione di Copenhagen 2009. Da quella riunione si ci aspettava che sbocciasse il nuovo accordo globale sul clima fatto di target di riduzione delle emissioni di gas-serra vincolanti per ciascun paese, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India all’Europa, dal Giappone all’Australia, dal Brasile al Canada. Si trattava della quindicesima riunione della Conferenza delle parti (Cop15), il summit sul clima che ogni anno riunisce attorno a un tavolo oltre 190 paesi. Molti avevano vissuto l’attesa di quel vertice Onu nella convinzione, rivelatasi poi illusione, che quanto gli scienziati indicavano come necessario per ridurre la crescita della temperatura globale fosse di per sé sufficiente a convincere i principali emettitori a firmare un accordo vincolante.
Non andò così. E da allora il negoziato si è trascinato nel tentativo di portare i paesi più recalcitranti – ovvero tutti i grandi emettitori tranne l’Unione Europea – a un negoziato i cui risultati possano sfociare in una nuova architettura del clima globale, come quella che fu dettata dal protocollo di Kyoto. Talvolta ci si illude che piccoli passi e accordi su punti marginali possano improvvisamente e quasi magicamente produrre il miracolo di fare uscire la situazione da quello stallo che gli economisti chiamano dilemma del prigioniero. Perché mai un paese dovrebbe fare sforzi di riduzione delle proprie emissioni se i benefici saranno goduti da tutti, anche da quelli che hanno fatto uno sforzo minore e addirittura nessuno? Così, ancora una volta, si vive questa fase nell’attesa del nuovo summit, la Cop21 di Parigi 2015 dove, per necessità, si dovrà produrre il nuovo accordo. Salvo che nel frattempo le cose sono un po’ cambiate. Quest’anno è stato pubblicato il nuovo rapporto sui cambiamenti climatici dell’Ipcc, il quinto. Allo stesso tempo i paesi avanzati sono entrati in una recessione con pochi precedenti storici e quelli in via di sviluppo hanno rallentato la loro crescita economica. La recessione ha ridotto il ritmo delle emissioni, ma non ha frenato il riscaldamento globale. È utile quindi richiamare alcuni messaggi contenuti nel rapporto dell’Ipcc, per la parte che riguarda le politiche di mitigazione:
- l’inazione da parte dei Governi appare coerente con un incremento della temperatura nel 2100 di 3,7-4,8°C. Un aumento superiore, meno probabile, rimane possibile;
- stabilizzare le concentrazioni di gas-serra a un livello compatibile con l’incremento di temperatura a +2°C (circa 450 ppm di CO2eq) entro il 2100 richiede riduzioni delle emissioni nell’ordine del 40-70 per cento entro il 2050 rispetto ai livelli del 2010 e praticamente nulle dopo il 2100;
- questo obiettivo implica cambiamenti radicali nei sistemi energetici, che comportino un livello triplo o quadruplo della quota di fonti di energia zero e low carbon, come rinnovabili e nucleare;
- i propositi di riduzione al 2020 delle emissioni dichiarati dai vari paesi nella Cop16, noti come Cancún Pledges, con alta probabilità non sono consistenti con l’obiettivo +2°C (figura 1);
- ritardare la riduzione delle emissioni al 2030 o più avanti aumenta la difficoltà della transizione e riduce le opzioni disponibili per diminuirle nella misura necessaria;
- stabilizzare le concentrazioni di gas-serra a 450ppm equivale a una riduzione nella crescita dei consumi nel corso del ventunesimo secolo di circa lo 0,06 per cento all’anno in media (rispetto a una crescita annualizzata dei consumi pari a un valore tra 1,6 e 3 per cento per anno). I costi associati a questo valore aumenterebbero sostanzialmente nel caso di azione ritardata al 2030.
Nonostante questi chiari messaggi, molti, tra cui chi scrive, non si aspettavano uno storico risultato da Parigi 2015. A ben guardare, non sembra che sia cambiato significativamente lo schema dei benefici netti (i payoffs) percepiti da ciascun paese derivanti da un’azione coordinata di mitigazione delle emissioni. In altre parole, le condizioni del dilemma del prigioniero sono ancora lì, sostanzialmente inalterate. Poiché l’orizzonte temporale in cui si determinano i danni del cambiamento climatico è nell’ordine dei decenni e centinaia d’anni, mentre l’orizzonte in cui vanno decise le politiche di mitigazione spesso coincide con il ciclo politico-elettorale, appare difficile attendersi risultati eclatanti. Un’azione più incisiva da parte dei nostri Governi potrà essere indotta solo da un’anticipazione dei danni futuri, come certi episodi di eventi climatici estremi che già si registrano oggi in giro per il mondo, e da un’accresciuta consapevolezza del problema fornita da risultati scientifici sempre meno incerti e più precisi.
Il miracolo inatteso
Chi si occupa di politica, tuttavia, sa che a volte si può produrre all’improvviso il miracolo. E questo potrebbe essere avvenuto nei giorni scorsi. O almeno si sono forse poste le premesse per un miracolo parigino. Al termine del vertice Apec, il presidente americano Barack Obama ha annunciato a sorpresa (sembra dopo mesi di trattative segrete) un accordo con il presidente cinese Xi Jinping secondo cui i due paesi ridurranno le proprie emissioni di gas-serra di circa un terzo nei prossimi due decenni. In particolare, gli Usa ridurrebbero le emissioni del 26-28 per cento entro il 2025 relativamente ai livelli del 2005 con una netta accelerazione rispetto al livello precedentemente dichiarato del 17 per cento (tabella 1). Per parte sua la Cina “intende” cominciare a ridurre le emissioni nel 2030 e fare “del suo meglio” per far sì che in quell’anno raggiungano il picco. Ha anche concordato di aumentare la quota di consumo di energia da fonti non fossili (rinnovabili e nucleare) a circa il 20 per cento entro il 2030. In particolare, il paese procederà a installare 800-1,000 gigawatts aggiuntivi di capacità di generazione elettrica nucleare, eolica, solare e altre tecnologie a emissioni zero entro il 2030, più di tutti gli impianti a carbone esistenti oggi in quel paese.
Si tratta di un annuncio fatto dalle due maggiori economie del pianeta, che sono anche i maggiori consumatori di energia e i maggiori emettitori di gas clima-alteranti (figura 2). Come tali, hanno una particolare responsabilità nel contribuire alla riduzione delle emissioni. L’annuncio segue a distanza ravvicinata la decisione dell’Unione Europea sul proprio nuovo target vincolante di riduzione delle emissioni del 40 per cento entro il 2030 (rispetto ai livelli 1990). Un’analisi più precisa delle implicazioni dell’annuncio, soprattutto da un punto di vista numerico, saranno fornite dagli esperti nelle settimane a venire. Una prima valutazione preliminare suggerirebbe che l’intesa potrebbe evitare le emissioni per circa 640 miliardi di tonnellate di carbonio. La figura 1 riporta i nuovi scenari così come potrebbero venirsi a determinare.
Nel grafico sono riportati:
1) Uno scenario tendenziale tra i molti creati nell’ambito dell’ultimo rapporto Ipcc
2) Un secondo scenario nel quale Stati Uniti e Unione Europea implementano pienamente quanto deciso a Copenaghen, con l’Unione Europea che si spinge oltre raggiungendo il suo recente impegno in più (il 40 per cento ai livelli del 1990 entro il 2030). Gli altri paesi si muovono secondo lo scenario base.
3) Uno scenario che contiene tutto quello compreso negli scenari precedenti con Stati Uniti e Cina pronti a rispettare gli impegni annunciati.
La Cina maturerebbe un picco delle emissioni di CO2 nel 2030 e Stati Uniti riducendo le emissioni del 27 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025.
La questione politica
Rimane ovviamente in piedi la principale questione politica. Riuscirà l’amministrazione Obama a rispettare questo impegno? Qualche tempo fa, l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale) ha proposto nuove norme per ridurre le emissioni delle centrali elettriche esistenti. È molto poco probabile che sia sufficiente per ottenere una diminuzione del 28 per cento. E da dove verranno gli ulteriori tagli? Il Congresso a maggioranza repubblicana aspetta una risposta, avversa questa mossa perché è scettico sui cambiamenti climatici e ne sottolinea solo i costi economici: non è detto che il presidente Obama abbia tutte le carte in mano per potere fare da solo.
Per la prima volta in assoluto, la Cina ha fissato un limite alle sue emissioni e questo è un buon risultato. La formulazione dell’impegno non è definita in modo stringente, ma resta una promessa importante. Affermare di voler realizzare un picco per le emissioni intorno al 2030 (non entro il 2030 ma vicino a quella data) lascia spazio per qualche ulteriore margine. Lavorare per ottenere il 20 per cento della sua energia da fonti non fossili entro il 2030 resta un secondo importante obiettivo. In queste ore, molti analisti sostengono che l’obiettivo della Cina è vago e non abbastanza ambizioso e per di più alcuni modelli suggerivano che le emissioni della Cina avrebbero in ogni caso raggiunto il picco intorno al 2030. D’altra parte, la Cina si era sempre rifiutata di indicare un termine per le proprie politiche e il fatto che ora lo abbia fatto (sebbene in modo non vincolante) rappresenta comunque un passo in avanti. Così come molto impegnativo (forse troppo) è il secondo obiettivo dichiarato: realizzare il 20 per cento della sua energia elettrica da fonti non fossili. Resta un accordo storico, che sapremo leggere meglio nelle prossime settimane. Ma sicuramente costituisce un importantissimo viatico per l’appuntamento di Cop21 a Parigi nel 2015. Per ora, bisogna credere che il bicchiere, una volta tanto, sia mezzo pieno.