«Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo»: e si sbagliava alla grande – si potrebbe dire, massacrando per par condicio anche Dante –: perché il suo campo non è la pittura, ma il marketing.
L’addetto culturale italiano a Washington, Renato Miracco, è venuto ad Arezzo per spiegare al sindaco Fanfani, all’assessore alla cultura Macrì, al Soprintendente Bureca e al vescovo Fontana perché dovrebbero precipitarsi a spedire negli Stati Uniti il grandissimo Crocifisso di Cimabue conservato nella chiesa di San Domenico. L’opera dovrebbe essere esposta a Washington nel 2013 (in occasione dell’Anno della cultura italiana in America) insieme al Satiro danzante di Mazara del Vallo: non perché qualcuno veda un nesso tra le due opere (almeno spero), ma perché si tratta di due ‘capolavori assoluti’ e ‘rarissimi’.
L’assessore Macrì ha prontamente commentato: «Siamo di fronte a un’occasione irripetibile che offre ad Arezzo due eccezionali opportunità. La prima è di legare, negli Stati Uniti, la cultura italiana alla nostra città. Gli eventi programmati in occasione dell’Anno della Cultura avranno formidabili riflessi mediatici in America e noi saremo sotto la luce dei riflettori. Essere stati scelti per rappresentare l’Italia è una gratificazione, ma soprattutto un “treno promozionale” che non può essere assolutamente perduto».
Non discuto le ottime intenzioni dell’assessore. Ma l’effetto di queste parole è terrificante: dipingono l’Italia come una vecchia aristocratica decaduta che per mantenersi deve prostituire le sue bellissime figliole, con i mezzani che si fregano le mani quando c’è un cliente col portafoglio gonfio. Guai a perdere l’occasione. Ma è davvero a questo che serve, Cimabue? Io credo di no, e credo che spedirlo in America sia profondamente sbagliato per almeno quattro ragioni.
La prima è che è pericoloso. Se tra i giganti dell’arte italiana ce n’è uno raro, fragile, sfortunato, ebbene quello è Cimabue. Il tempo, le alluvioni e i terremoti hanno decimato il corpus di questo patriarca della lingua figurativa italiana, e noi non possiamo mettere a rischio una delle sue poche opere sicure e ben conservate: un colosso di 3 metri e 36 per 2 e 67, dipinto a tempera su legno quando Dante aveva meno di cinque anni. Come possiamo anche solo pensare di caricarlo su un aereo per fargli fare l’uomo-sandwich del turismo aretino? L’anno scorso, l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori provò a spedire a Mosca un’opera analoga per importanza e dimensioni, il Crocifisso di Giotto di Ognissanti, ma per fortuna l’Opificio si mise di traverso: e c’è da sperare che anche questa volta gli organi di tutela battano un colpo.
La seconda è che è illegale. L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione italiana. E l’articolo 66 del Codice dei Beni culturali dice che «può essere autorizzata l'uscita temporanea dal territorio della Repubblica» delle opere vincolate solo per «manifestazioni, mostre o esposizioni d'arte di alto interesse culturale, sempre che ne siano garantite l'integrità e la sicurezza». Ma in questo caso non c’è alcun valore culturale, e la natura eccezionale dell’opera rende impossibile garantirne davvero la sicurezza.
La terza è che è diseducativo. Come dimostrano alcune sentenze della Corte Costituzionale, l’articolo 9 dice che il patrimonio serve ad aumentare la cultura, non a fare da volano allo sviluppo economico. Forse mi sbaglio, ma mi aspetterei che un sindaco, un assessore alla cultura, un soprintendente e un vescovo mettessero al primo posto la formazione dei cittadini: e non si strappa un crocifisso da una chiesa, un’opera dal suo contesto originario. E non si assoggetta al mercimonio un testo poetico e sacro così alto.
La quarta è che è inutile. Nessun economista pensa che ci sia davvero un nesso tra l’esposizione del Crocifisso di Cimabue a Washington e il turismo americano ad Arezzo: non c’è alcuna ricaduta, se non per l’immagine personale di coloro che organizzano l’‘evento’, i quali sono gli unici a guadagnarci.
Tutti gli altri – Cimabue, la città di Arezzo, la cultura italiana – hanno solo da perderci.