L’atto di citazione notificato dalla Procura della Corte dei Conti a Cristina Acidini (e, insieme a lei, all’attuale sottosegretario Roberto Cecchi, e ai membri del comitato di storia dell’arte del Mibac) costituisce una prima, provvisoria, conclusione della lunga querelle sul Crocifisso cosiddetto ‘di Michelangelo’. Una conclusione che dà torto alla soprintendente di Firenze, senza se e senza ma.
La procura chiede che Cristina Acidini, per aver reso il parere di congruità del prezzo d’acquisto pubblico dell’opera «abdicando alla propria posizione di garanzia circa la correttezza dell’acquisto e il corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale», sia condannata al pagamento di 600.000 euro «per il danno erariale subito dal Ministero».
La richiesta di condanna assimila la posizione dell’Acidini a quella, apicale, di Cecchi – a cui è richiesta la stessa cifra per aver disposto l’acquisto con una serie di «gravi omissioni» –, perché il punto focale di tutta l’inchiesta è la determinazione del prezzo. «La spesa pubblica sostenuta per l’acquisto del crocifisso Gallino ha una dimensione economica irragionevole che, quindi, rappresenta un danno per il pubblico erario», scrive il procuratore: interpellato dai magistrati contabili, Donald Johnston (responsabile internazionale della scultura per Christie’s) ha infatti stimato l’opera in 85.000 euro, il che vuol dire che gli imputati hanno gettato dalla finestra 3.165.000 euro dei cittadini italiani.
Ma i passaggi che colpiscono di più sono quelli in cui la Corte constata che «non è stato avviato il confronto tra gli studiosi» (e che «se tale elementare precauzione fosse stata adottata, sicuramente l’amministrazione» non avrebbe patito un simile danno), e che «attualmente il crocifisso è collocato in magazzino e non fruibile al pubblico».
Chiusura, in tutti i sensi, dunque: chiusura al dibattito, chiusura dell’opera in cassaforte. È questa la linea seguita dalla soprintendente in questi tre anni di polemiche: l’indisponibilità ad accettare il confronto, il tentativo di delegittimare gli interlocutori critici gridando (o meglio sussurrando) al complotto, e financo la sottomissione dell’esposizione delle opere ad una strategia che non ha certo nulla a che fare con l’interesse pubblico. Come si fa, infatti, ad affermare contemporaneamente che il Cristo è di Michelangelo e a lasciarlo per due anni in un deposito, per non meglio precisate disposizioni ministeriali (impartite, magari, dal coimputato Cecchi)?
Pochi giorni fa, Antonio Paolucci ha difeso con sdegno i confini della storia dell’arte, dichiarando di non vedere «come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica». Senza volerlo, l’ex ministro dei Beni culturali ha emesso la diagnosi più esatta dello stato attuale della storia dell’arte: una disciplina letteralmente ‘irresponsabile’. Un mondo autoreferenziale governato da un piccolo gruppo di persone: un gruppo che si ritiene un élite, ma che troppo spesso assomiglia più ad una casta, o addirittura ad una cricca. Tale degenerazione non riguarda solo una disciplina accademica, ma investe la tutela e la gestione del patrimonio storico e artistico della nazione. E questo, in una città come Firenze, vuol dire che l’irresponsabilità della storia dell’arte diventa un problema di tutti.
Il processo che si apre a Roma il 10 maggio potrebbe far cambiare molte cose.