Il manifesto, 23 aprile 2014 (m.p.r.)
Porto a scuola un bel po’ di spillette della lista Tsipras. So che, anche solo per amicizia, due o tre euro per ciascuna dai colleghi li raccolgo. Fanno simpatia quelli che ancora si impegnano in queste cose. Però in sala docenti una mi guarda e mi chiede chi è Tsipras. E va bene, si sa che la domanda circola. A spiegarle un po’ di Syriza, mi accorgo che viene fuori una sorta di sinistra arcobaleno e sono felice quando mi salva la fine della ricreazione. Ma la domanda inquietante la pone un altro collega che mi chiede ’Che cosa è Tsipras’
Pensa forse a una sigla, un acronimo di quelli misteriosi, una medicina. Penso che esistono diverse Italie una accanto all’altra. Forse anche una dentro l’altra. Personali schizofrenie culturali. Malgrado tutto, quando si sta con ragazze e ragazzi il mondo sembra avere ancora un colore caldo, una possibilità di condivisione, perlomeno delle domande, delle incertezze. Già il segno di un senso. Comune. Poi esci dall’aula e quell’altro senso comune ti fa sentire azzerato, impotente, disponibile a tutto, ad ingoiare qualunque decisione, basta che sia veloce, operativa. La “politica” avrebbe perso legame con il popolo perché non decide, non fa. Non importa cosa. L’importante che sia azione — non teoria, non discorso.
Negli spazi ravvicinati della nostra vita trasformazioni molecolari si sentono e sono significative, mi sembra. L’essere uomini, l’essere donne, madri e padri nuovi — in cerca di un modo decente di essere se stessi, con tutti i casini che abbiamo dentro. Per me è un fatto politico che salva dal catastrofismo. Ma è come se il baratro fra società e istituzioni si fosse replicato negli ordini simbolici che ci abitano, perché la deriva autoritaria delle riforme di Renzi e Verdini è forte di un desiderio diffuso di delega assoluta, non più di rappresentanza. Di affidamento. Provare il prodotto nuovo, vedere se questo funziona. C’è bisogno di crederci.
Possiamo anche parlare con ragazzi in crisi maschile di come ci sia un altro modo possibile di essere uomini. Che la crisi del patriarcato potrebbe essere una liberazione per noi tutti, mai all’altezza dei modelli vincenti da incarnare. Che appartenere a un genere non è la condanna a vita a un modello, ma un tessuto di relazioni, padri e fratelli orfani di Padre Assoluto, con cui costruire liberamente la propria singolarità. E tuttavia fra qualche settimana molti nostri studenti voteranno per la prima volta e si troveranno a scegliere fra Berlusconi, Grillo e Renzi. Che fanno cultura anche se uno non vota. Modelli maschili proprietari, neofeudali o populisti. Comunque fuori da una dimensione orizzontale, relazionale, della politica. L’uomo solo al comando, che regala Ici o euro in busta paga, che manda tutti a casa o torna al suo mondo — che non è quello dei politici. E intanto si circonda di giovani ragazze, perfetto gadget commerciale di rappresentanza per il popolo.
Ma il pubblico resta comunque inquieto oggi. Accanto a quello che ti domanda ’Che cos’è Tsipras’, come pensasse a un nuovo farmaco, trovi un sacco di colleghe e colleghi che ti cercano, le spillette vanno a ruba. Davvero una specie di antidepressivo. Ce l’hai due tsipras? Addirittura qualcuno ti dà 20 euro e dice, mentre cerchi il resto, Tieni tutto, qualcosa voglio fare, non mi occupo di politica da una vita. Certo, dà i soldi ma non viene alle riunioni, non partecipa in qualche modo. Perché? Io penso a un problema di sentimento. Come se certi desideri si fossero “privatizzati”, rassegnati alla solitudine, alla nostalgia del futuro di un tempo. E non avessero più agibilità politica.
Su questo le tre aziende elettorali leader hanno ragione. Hanno capito meglio da tempo. Non si tratta di programmi o analisi o competenze. Chi lo conosce il programma di Renzi, chi chiede il suo progetto di società. E chi si è mai veramente fidato di Berlusconi. Le cose che scrivono gli economisti di sinistra o i costituzionalisti sono analisi notevoli. Spiegano che c’è un’altra possibile uscita dalla crisi. Aprono quindi un orizzonte. Ma non mi sembra questo il punto. Il punto è dove troviamo l’energia, la speranza per andare in quella direzione. Senza, niente e nessuno si muove. C’è un altro desiderio, un sentimento su cui poter ricostruire una cosa faticosa come la democrazia? Qualcosa che dia senso non solo accademico o giuridico alla difesa della Costituzione?
Non si può fare solo appello alla razionalità economica contro l’emotività delle illusioni da mercato elettorale: si rischia perfino di restare impigliati nell’economicismo che si vorrebbe denunciare. Peraltro tipico della sinistra. Forse dovremmo imparare dai miei studenti — pure tutt’altro che brillanti — che quando “lottano” mi sembra cerchino di essere felici. Banalmente, ma tutto sommato anche politicamente. Si prendono i loro spazi per stare insieme, conoscersi, far saltare ritmi e solitudini della megamacchina scolastica. Essere singolari senza essere soli.
Penso che dal 26 maggio, se l’esperienza dell’antidepressivo greco va anche solo benino, si dovrebbe ripartire da qui: dagli spazi di un’altra politicità. Se ci si metterà a contare quanti sono passati di Sel o Prc o d’altro, è finita di nuovo. Ci saranno eletti, sezioni e comitati, non locande per viaggiatori, accampamenti leggeri. Luoghi politici dell’anima. Dalla crisi istituzionale, che esprime la sua antropologia politico-commerciale, non ci si salva solo sul terreno politico istituzionale. Secondo me si può contare su un’altra antropologia, sebbene quasi sempre fuori scena. Ma si deve salire di un grado, oppure scendere. Comunque occupare una dimensione meta-politica, sub-democratica. Fatta di relazioni orizzontali, ricerca comune, riconoscimento e insieme invenzione di sé e del mondo.
Come nei giochi dei bambini e delle bambine. Nel facciamo che ero, per noi adulti faticosissimo: la felicità inconsapevole e impegnativa dell’essere già qui e ora, altrove. Nell’immaginario che viviamo. Che può far esplodere il materiale che intristisce — se vissuto con almeno un po’ di gioia rivoluzionaria.