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Chiarante. Un bel libro sugli anni che hanno segnato le vicende del Pci
28 Dicembre 2007
Recensioni e segnalazioni
Michele Prospero su l’Unità (28 dicembre 2007) e Valentino Parlato sul manifesto (23 dicembre) recensiscono il libro di Giuseppe Chiarante, «Con Togliatti e con Berlinguer»

Michele Prospero

Governo o società le due anime del Pci

l’Unità, 28 dicembre 2007

In questo libro di testimonianza (Con Togliatti e con Berlinguer, Carocci, pagg. 261, euro 22,50), Giuseppe Chiarante ricostruisce vent’anni di un’esperienza politica singolare. Egli infatti è l’unico politico ad essere stato sia nel consiglio nazionale della Dc che nel comitato centrale del Pci. Esponente della sinistra Dc sensibile all’insegnamento dossettiano, Chiarante aderì al Pci nel 1958 insieme ad un drappello di dirigenti soprattutto lombardi. Erano anni di enormi difficoltà per i comunisti, ancora alle prese con i contraccolpi del ’56 e con l’abbandono di un gran numero di intellettuali. Chiarante compiva, da questo punto di vista, una scelta in netta controtendenza in soccorso di un partito assediato. Pur venendo dal mondo cattolico, egli difficilmente può essere catalogabile nella formula del cattocomunista. Contatti soprattutto nei primi anni con Rodano ci furono, ma Chiarante si contraddistinse da subito per una sensibilità molto laica. Anzi proprio sui temi oggi chiamati eticamente sensibili, egli prese posizione con un rigore logico che Togliatti in prima persona gli riconobbe, contestandogli tuttavia la mancanza di senso della realtà.

Il nodo del contendere era anche allora la famiglia, al centro di un convegno dell’istituto Gramsci svoltosi nel 1964. Chiarante vi partecipò condividendo le posizioni che rimarcavano la storicità, non la naturalità dell’istituto familiare. La critica della concezione cristiano-borghese della famiglia, che a Frattocchie fu abbozzata, comportava la necessità di una profonda riforma della legislazione per toccare il rapporto tra i sessi. Erano i primi e timidi passi verso un nuovo diritto di famiglia e verso il divorzio. I rilievi di Togliatti riguardavano la pretesa astrattezza delle questioni relative alle libertà civili e personali. Come a dire, le reali questioni politiche sono altre.

Chiarante si schierò, in questi anni di lenta disgregazione della grande sintesi togliattiana, con la corrente della sinistra ispirata da Ingrao. Allievo anch’egli di Banfi, Chiarante condivideva i mutamenti di politica culturale tentati da Rossana Rossanda per andare oltre il rigido storicismo del Pci. Nelle argomentazioni della sinistra comunista lo attraevano in particolare una voglia di aggiornamento del catalogo degli autori. Per dare il senso della difficoltà di andare oltre gli schemi dello storicismo assoluto allora imperante, Chiarante ricorda un articolo di Carlo Salinari in cui si disquisiva sul posto ben diverso da conferire in una biblioteca ideale a Marx e a Wittgenstein. Dell’ingraismo Chiarante apprezzava soprattutto l’abbandono della lettura del caso italiano in termini di arretratezza da colmare con politiche di responsabilità nazionale. Si trattava del punto di forza del realismo politico di Togliatti e soprattutto di Amendola che raccomandava moderazione e senso del limite indispensabili per tamponare la deficienza di un coerente e moderno soggetto politico della borghesia.

Secondo Chiarante l’approccio di Amendola (ma un pessimismo cupo sulle disgregatrici tendenze sotterranee della società italiana lo coltivava anche Togliatti) si situava in un’ottica di rivoluzione passiva. La categoria di Cuoco viene impiegata nel senso che la modernità in Amendola è solo subita, non orientata con sfide che incidano anche sul versante etico-politico generale. Amendola affidava al Pci, d’intesa anzitutto con i socialisti, il compito di incalzare i governi in nome di obiettivi di riforma proclamati solo a parole. Ai comunisti toccava quindi rimediare al fallimento dei propositi riformatori del centro sinistra. La categoria che Chiarante contrappone a questo criterio che gli pare viziato da moderatismo è quella di egemonia: ossia la capacità di orientare le innovazioni mutando anche i rapporti di forza nella società. Una visione alternativa di società, un modo diverso di guidare lo sviluppo e di agire nelle nuove contraddizioni erano il cuore della posizione di Ingrao. A una parte della sinistra ingraiana, quella raccolta attorno al Manifesto, Chiarante rimprovera tuttavia una contraddizione piuttosto vistosa tra la lettura modernizzatrice delle nuove tendenze del capitalismo e i richiami a figure e luoghi del terzomondismo (Castro, Mao).

Ciò ovviamente non vuol dire che differenze di analisi si risolvano con misure disciplinari esemplari per combattere lo spirito di frazione. E a questo riguardo fu senza dubbio scritta una brutta pagina della storia del Pci. In fondo nel Pci si agitavano, a partire dagli anni sessanta, due letture molto diverse della realtà italiana. Una era più legata al dato politico, alle opportunità cioè di costruire lo spazio per una alternativa di governo. In questa posizione si riconoscevano quanti pensavano a un Pci che non si limitasse a giocare in un ruolo sempre identico di opposizione. L’altra tendenza era invece più interessata ad una alternativa di società. Nel ’68 queste due sensibilità cozzarono in modo evidente. Chiarante ricorda l’estraneità profonda di Amendola e il fastidio quasi fisico di Bufalini verso le forme della mobilitazione studentesca. La polarità tra alternativa di governo e alternativa di società non è mai stata risolta dalla sinistra.

Dentro il Pci vigeva peraltro la regola tipica della soluzione trasformista, ossia dominava un grande centro, visto come asse portante che di volta in volta compiva parziali oscillazioni verso destra o sinistra. Il segretario, di norma a vita nel suo incarico, registrava gli spostamenti di sensibilità dandone espressione soprattutto nella diversa composizione della segreteria o dell’ufficio politico. Un grande centro regnava ricorrendo alla proverbiale potatura delle ali (di cui anche Chiarante fu vittima con la mancata elezione al comitato centrale nel corso dell’XI congresso). La forte contrapposizione tra la destra e la sinistra interna non impediva però il riconoscimento politico del merito. Chiarante rammenta che a volerlo deputato fu proprio Napolitano cui attesta nel libro limpidità e lontananza dallo spirito di frazione, dalla mentalità clientelare.

Erano ormai gli anni settanta, gli anni di Berlinguer e di un Pci in grande espansione. L’inserimento dei comunisti nell’area del governo, non a caso, vedeva Berlinguer attorniato da una segreteria in gran parte composta da esponenti della "destra". Nell’esperienza della solidarietà nazionale le due anime del Pci vennero però a collisione: da una parte misure parziali di risanamento, dall’altra obiettivi di più ampia rigenerazione. Ricorda Chiarante che le due anime erano presenti nella stessa figura di Berlinguer. Egli per un verso recepiva gli echi di una interpretazione catastrofista del capitalismo di cui si sottovalutavano le crisi come rigenerazioni o distruzioni creatrici. Per un altro, oltre agli accordi tra le classi sociali per impedire imminenti catastrofi, Berlinguer suggeriva l’austerità come occasione di rigenerazione qualitativa della società. Tra progetto e governo insomma non si trovò la matassa della mediazione e venne così smarrita anche la carta di creare almeno nuovi equilibri nel sistema politico per non rimanere in mezzo al guado. Si dovette convivere, per dirla con Chiarante, con la necessità della rivoluzione passiva e con il sogno dell’egemonia.



Valentino Parlato

Storie italiane viste dal «bottegone»

il manifesto, 23 dicembre 2007

Dopo Da Togliatti a D'Alema e Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, il nostro Giuseppe Chiarante ci offre una terza meditazione, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (prefazione di Aldo Tortorella, Carocci, pp 261, euro 22,50). Tre volumi, e questo ultimo in particolare, che aiutano a meglio leggere una parte importante della storia d'Italia nel secolo appena concluso.

La prefazione di Aldo Tortorella è forse la migliore recensione al libro e pertanto mi pare utile citare l'avvio: «Questo nuovo volume dell'autobiografia di Giuseppe Chiarante è anche la storia del sorgere della nuova sinistra comunista, delle distinzioni che in essa si aprirono con la nascita del gruppo del manifesto, del modo con cui ebbe origine - e poi si deformò - l'idea dell'incontro tra comunisti e cattolici. Ne viene un contributo vivo alla comprensione della storia dei comunisti italiani e del nostro paese». È un libro - aggiungo io - che conforta chi ha vissuto quegli anni e dovrebbe incoraggiare i giovani.

È una storia nella quale ritrovo anche - mi sia consentito - la mia giovinezza: il quinto piano di Botteghe Oscure, il lavoro comune con Eugenio Peggio, Mario Mazzarino, Beppe Chiarante, Osvaldo Sanguigni, Valdo Magnani. Il mio rapporto, indubbiamente forte, con Giorgio Amendola (che mi tolse il saluto dopo la vicenda del manifesto, ma che io continuai pervicacemente a salutare e poi ancora l'avvio dei rapporti (buoni) con Luciano Barca e Lucio Magri (che con Chiarante era stato protagonista dell'ingresso nel Pci di quel gruppo di cattolici democratici) che lavoravano alla Sezione di massa, sempre al quinto piano. Il quinto piano è un pezzo importante della mia memoria.

Ma torniamo al libro, nel quale mi sembra di notevole rilievo il riprendere a discutere del compromesso storico; della forza di quel tentativo e del suo fallimento. L'idea del compromesso storico - ci spiega Chiarante - nasce ben prima del golpe in Cile e ha addirittura più di un fondamento nel famoso discorso di Togliatti a Bergamo. E - va aggiunto - come ha ricordato Gianni Ferrara nel suo intervento in onore della memoria di Francesco De Martino, fu proprio De Martino a proporre gli «equilibri più avanzati» in sintonia con la proposta del compromesso storico. L'idea, a mio parere forte, del compromesso storico - che puntava a un rinnovamento dei tempi della Costituzione - rapidamente degradò nel governo delle astensioni (il monocolore Andreotti) e poi nei governi della solidarietà nazionale e, infine, nel craxismo, nel tramonto della prima repubblica, nella Bolognina e in una crisi di tutte le sinistre, che ancora continua e non è giunta al fondo. E non va dimenticato che l'assassinio di Aldo Moro è parte integrante della fine del tentativo di avanzata democratica che si caratterizzò come compromesso storico.

Di questa vicenda decisiva nella storia d'Italia Chiarante è stato attore, ma riesce anche a esserne testimone acuto. Attore e testimone, sembra una contraddizione, ma molti della generazione di Chiarante lo sono stati. Attori in quanto compagni impegnati nel lavoro di partito e nella ricerca, ma anche con una distanza dall'agire quotidiano che ha consentito loro di essere testimoni affidabili, in grado di testimoniare anche nel nostro stesso agire.

Il pregio di questo libro di Chiarante, il più recente, ma non ultimo (sta già lavorando a un altro) è quello di raccontarci una storia di straordinario impegno personale, ma con il distacco che ciascuno (pochi però ci riescono) dovrebbe aver da se stesso, dal suo agire, dai suoi successi e dalle sue sconfitte. Quindi, concludo con un grande grazie a Beppe. La vicenda del manifesto (e Chiarante spiega bene le ragioni del suo mancato consenso) ci divise, ma vale ricordare che in quel lontano 1969 Chiarante votò contro la nostra radiazione dal Pci e che nel corso degli anni successivi ci siamo ritrovati, amici e compagni, sullo stesso fronte di lotta, dove ancora cerchiamo di resistere.

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