Rivolto alla sinistra italiana e a tutti coloro che, in Italia e in Europa (e anche negli Stati Uniti d´America), hanno gioito e giudicato come un evento positivo l´affluenza alle urne del popolo iracheno il 30 gennaio: «Adesso vi dichiarate contenti, ma dove eravate voi nei mesi scorsi mentre i soldati della coalizione combattevano e morivano per la libertà e la democrazia? Ve lo dico io dove eravate. Eravate nelle piazze ad insultarci, a sostenere che avevamo sbagliato tutto, che la democrazia non si esporta sulla punta delle baionette. Perciò prima di gioire dovreste battervi il petto, assumervi la responsabilità di quanto sostenevate fino a ieri, confermare che avete perso ogni credibilità». Parole di Silvio Berlusconi, parole di tutti i neo-conservatori americani, parole che lo stesso George Bush fa trasparire sotto il mantello della diplomazia con la quale ora persegue l´obiettivo di recuperare quanti, in Usa e in Europa, si sono opposti alla guerra irachena e hanno fatto di tutto per impedirla e per intralciarne il decorso.
Il tono di quelle parole è forse troppo apodittico e rischia di incancrenire un dissenso di massa tra le due sponde dell´Atlantico, anche se il linguaggio delle Cancellerie è molto più cauto e felpato. Rischia di consolidare quell´antipatia tra l´America e il resto del mondo che è il dato più nuovo e più netto emerso dall´inverno del 2003, dopo che il resto del mondo si era stretto senza riserve attorno al popolo e al governo americano colpiti al cuore dall´attentato dell´11 settembre.
Ma non c´è dubbio che quelle parole pongono una domanda pertinente, sollevano un problema reale e non eludibile nella coscienza di quanti hanno accolto con sincero sollievo le elezioni irachene dopo aver avversato la guerra voluta da Bush. Se il 30 gennaio scorso gli iracheni hanno potuto esercitare il loro diritto democratico di eleggere un´assemblea costituente e un governo legittimato, non si deve questo risultato alla guerra contro il tiranno Saddam Hussein? Non è evidente come la luce del sole che esiste tra quei due fatti un rapporto di causa ed effetto che nessuna persona di buonafede può negare? E allora? Non debbono, gli oppositori di quella guerra, trarne oggi le conseguenze e riconoscere finalmente il loro errore ed insieme a esso i meriti conquistati sul campo da Bush e dai suoi alleati?
Se questa discussione mirasse soltanto ad accertare da che parte stia l´errore e come debba spartirsi il torto e la ragione, essa sarebbe del tutto vacua. In politica non esistono verità oggettive da accertare, ma opzioni determinate da interessi, convinzioni, intuizioni; in politica come in amore non si può dire «mai». Gli storici, a debita distanza di tempo dai fatti accaduti, spiegano le cause che determinarono certe scelte e gli effetti che ne derivarono.
Tracciano un «trend», un percorso. Ma anche il loro lavoro di scavo è provvisorio, sempre rivedibile e revisionabile, sempre soggetto alle soggettive interpretazioni.
Ma qui il caso è diverso. La discussione infatti influisce direttamente sull´immediato futuro. Qui e ora, visto che proprio qui e ora la superpotenza americana per bocca del suo Capo ha rilanciato la posta. La posta non è soltanto quella d´aver deposto il crudele tiranno dalle mani sporche di sangue e neppure, soltanto, quella d´aver inferto un colpo al terrorismo e al fanatismo islamista, ammesso che le elezioni irachene abbiano di per sé realizzato questi due obiettivi, ma purtroppo non sembra affatto che sia così: e lo dimostra il proseguire degli attentati e dei sequestri, come quello di Giuliana Sgrena, l´inviata del "Manifesto" che ci auguriamo venga subito rilasciata.
L´America di Bush ha ora bandito una vera e propria crociata: portare libertà e democrazia in tutto il pianeta, sia pure in forme consone a ciascun paese e cultura; rendere la vita difficile e infine abbattere tutti i tiranni, ovunque si annidino; restaurare i diritti civili ovunque siano conculcati, issando la bandiera del Dio degli eserciti che è sicuramente con il Bene ed è alla testa di chi combatte contro il Male.
Questa è la posta. Chi potrebbe mostrarsi indifferente? Chi potrebbe evitare di schierarsi con il Bene contro il Male, con la libertà contro la schiavitù, con la sicurezza e i diritti contro il terrorismo e la tirannide?
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Non è certo un avvenire di quiete e di pace quello prefigurato da una crociata di questa natura e con questi obiettivi, ma piuttosto è un futuro di tensioni e di guerra.
La guerra sarà molto lunga, disse Bush dopo l´11 settembre e continua a ripeterlo a ogni occasione. Dopo le elezioni irachene lo ha ribadito arricchendone gli obiettivi, quasi prevedendola permanente e assumendone l´«imperium». Qualche osservatore ci vede un nesso con Teodoro Roosevelt, ma il modello non è quello. Bisogna risalire alla Roma di Cesare, salvo che la vocazione imperiale a quell´epoca non mistificò la conquista del potere con paludamenti ideologici. Ma Bush guida la più grande democrazia del mondo e non può averla con sé senza assegnare alla sua crociata un contenuto morale del quale è certamente e profondamente convinto.
Ecco perché questa discussione non è eludibile. Posto che la diffusione della libertà non può non essere un fine comune a tutti coloro che si riconoscono nei valori dell´Occidente, si tratta infatti di capire se l´esempio iracheno sia quello valido e reiterabile oppure sia stato un errore da non commettere mai più.
Capite bene che, posta così come deve esser posta, la questione non è oziosa, non è materia riservata agli storici, ma è attualissima, concreta, politica e tutti ci coinvolge sulle due sponde dell´Atlantico ma anche oltre, oltre l´Occidente. Ci vedi l´Africa e le sue miserie; ci vedi in lontananza l´ombra lunga della Cina, le contrastate pianure dell´Asia Centrale, la risorgente autocrazia del nuovo zar delle Russie.
Seguirete ancora il modello iracheno? Coltiverete ancora lo slogan della buona guerra attraverso la quale si costruisce la pace e si esporta la libertà? Invertiamo le domande.
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Nell´inverno del 2003, quando questa discussione è cominciata e ha diviso l´Occidente, l´Armata americana aveva già cominciato a schierarsi. Nel marzo di quell´anno c´erano già 60 mila marines e truppe speciali nelle basi saudite e negli Emirati. Già incrociava nelle acque del Golfo la flotta aeronavale più potente del mondo.
L´esercito turco era sul piede di guerra. Blair faceva preparare i contingenti delle «Royal Forces».
L´Iraq era circondato da un anello di ferro pronto a trasformarsi in un anello di fuoco. Gli ispettori dell´Onu (e della Cia) percorrevano il paese alla ricerche delle armi di distruzione di massa. Saddam (che quelle armi non le aveva più dal 1991 come ormai è unanimemente ammesso e come a Washington e a Londra in realtà sapevano da tempo) assisteva annichilito a quei preparativi. Sapeva che il suo esercito non avrebbe resistito più d´una settimana. Sapeva anche di non poter fidarsi di nessuno e meno che mai delle sue scalcinate truppe di élite.
Ma come tutti i dittatori innamorati della propria supposta abilità, pensava d´esser capace di arrivare fino all´ultimo minuto e poi cedere per evitare lo scontro. Cedere pur di mantenersi al potere sotto la protezione addirittura di chi in quel momento lo stava minacciando.
Si poteva realisticamente arrivare a quel risultato? Ottenere una sorta di protettorato affidato all´Onu a ridosso dell´anello militare Usa già dispiegato sul terreno? Ottenere la concessione, graduale ma effettiva, di alcuni diritti civili per il popolo iracheno? Sostenere la presenza in campo dell´Onu con un adeguato contingente di caschi blu? Il cardinale Etchegarray, inviato dal papa a Bagdad, dichiarò che quell´obiettivo non era impossibile. Il ministro degli Esteri di Saddam, Tareq Aziz, fece capire con caute perifrasi la stessa cosa. Francia, Germania, Russia, premevano perché si perseguisse quell´obiettivo.
La verità è che non era l´obiettivo di Bush perché Bush voleva far sentire la voce del cannone e l´Iraq era in agenda da almeno tre anni.
Era in agenda ben prima dell´11 settembre. Ne fanno fede i documenti e il racconto circostanziato fatto dal ministro del Tesoro americano, O´Neill che si dimise dalla carica proprio perché, partecipando alle sedute del gabinetto ristretto insieme al segretario di Stato, al segretario alla Difesa, al Comandante in capo delle Forze armate, al Capo della Cia, a Condy Rice, ovviamente presieduto da Bush, aveva assistito con stupefazione alla discussione sull´invasione dell´Iraq e ai piani strategici relativi e «top secret».
La motivazione furono le armi di distruzione di massa.
L´urgenza fu invocata perché Saddam, secondo informazioni assolutamente certe, aveva il dito sul grilletto. E anche per imperative ragioni meteorologiche: l´invasione doveva partire alla fine di maggio o al più tardi nella prima metà di giugno; era l´ultima finestra meteorologica perché «non si può fare una guerra nel deserto a sessanta gradi di calore».
In realtà non era vero niente. Le armi di distruzione non c´erano e la U.S. Army è rimasta per due estati di seguito a combattere prima la guerra e poi il dopoguerra.
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Tutto vero, dicono i pochi intellettualmente onesti che ci propongono quella domanda. Ma resta il fatto che la nascita di un sia pur incompleto segnale di libertà e di democrazia deriva da quella guerra, piena di errori ma foriera di un risultato prezioso. Ci sarebbero state le elezioni irachene del 30 giugno senza la guerra voluta da Bush? Rispondete.
Rispondo. Probabilmente non ci sarebbero state il 30 gennaio 2005. Per condurre Saddam al guinzaglio fino a sancire il diritto di voto sotto gli occhi dell´Onu e con l´Armata Usa ai confini, ci sarebbero voluti due o tre anni di più. Più tempo.
Sull´altro piatto della bilancia ci sono i morti in combattimento, americani, inglesi, anche italiani. È stato calcolato che potrebbero essere stati centomila i morti tra la popolazione civile irachena, il 40 per cento donne e bambini. Dovuti in parte ai terroristi e a quelli che la stampa Usa chiama «insurgent» (non solo il giudice Forleo, ma tutta la stampa americana); e in parte al «fuoco amico» degli aerei e degli elicotteri Usa. Centomila morti (e un assai maggior numero di feriti e mutilati) non sono pochi, specie se concentrati in una zona specifica del paese.
Ma c´è dell´altro. C´è che in Iraq ha fatto il suo nido il terrorismo che prima non c´era e che sarà difficile da sradicare. C´è che il costo della dissennata operazione ammonta già a 250 miliardi di dollari, che non basteranno.
Si poteva evitare? Sì, si poteva evitare. Negoziando, negoziando negoziando. A ridosso della Grande Armata.
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Del resto è proprio Condoleezza Rice a confermare questa nostra tesi. Il neo segretario di Stato conferma che il prossimo obiettivo in agenda è l´Iran. Ma a chi le chiede: un´altra guerra? risponde: assolutamente no, negozieremo. Gli europei ci diano una mano nel negoziato. L´opzione militare non è prevista, salvo che Teheran non varchi la soglia della bomba nucleare.
Questa è oggi la posizione di Washington. Il cannone non è in agenda, ha detto Condy a Schröder, a Chirac e perfino a Blair che del cannone comincia ad averne abbastanza.
Perciò la risposta a quella domanda è chiara e netta: c´era un altro modo per realizzare l´obiettivo comune di diffondere libertà e democrazia. Lo stesso che Washington afferma oggi di voler praticare.
Ma nel frattempo ha ricoperto un paese di rovine e di cadaveri. Si dice: di questo Bush risponderà alla storia e ai posteri. Il giudizio dei posteri interessa solo i posteri. Chi vive oggi se ne infischia di quel giudizio.
Certo, per chi ci crede, ci sarà il Giudizio Universale. Ma se uno è convinto d´avere Dio al suo fianco, pardon, di marciare al fianco di Dio, quel Giudizio Universale è già stato formulato. Perciò Bush starà probabilmente tra i Beati. Berlusconi, lui, ne è già sicuro.
Postilla. Due punti non mi convincono in questo articoli. 1. Siamo certi che il fatto che a Bagdad e in alcune altre città si sia votato significa aver portato la democrazia in Iraq? e quale democrazia" 2. Oltre ai morti innocenti e alle distruzioni bisogna mettere un altro gravissimo danno arrecato dalla guerra di Bush e dei suoi servi all'umanità: l'abisso d'odio scavato tra l'Occidente e il resto del mondo (es)