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Massimo Giannini
Chi paga il conto del sacco bancario
23 Giugno 2017
Articoli del 2017
«Di tutto il “marcio”
finirà nella

bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite». la Repubblica, 23 giugno 2017

È inutile sdottoreggiare di bail in e di burden sharing.
Il grande Sacco Bancario di questi anni, alla fine, lo stiamo pagando noi. Montepaschi, Etruria e le altre tre “banchette”, fino ad arrivare alle due popolari venete: cosa resta del mesto Carnevale inscenato dai Signori del Credito, se non la maschera di Pantalone che apre il portafoglio e copre i buchi con il denaro pubblico? In queste ore politica e mercati brindano al presunto “salvataggio” della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Nel deserto della finanza tricolore incede fiero il tanto agognato Cavaliere Bianco. Banca Intesa, si prende le due venete ed evita la temuta procedura di “risoluzione” che avrebbe scaricato i costi del default non solo sugli azionisti, ma anche sugli obbligazionisti senior e (pro quota) i depositanti oltre i 100 mila euro.

Ma è qui la festa? Banca Intesa compra al prezzo simbolico di un euro la good bank, cioè il “tesoretto” residuo che rimane nei caveau di Vicenza e Montebelluna (i crediti “buoni”, gli sportelli, la struttura commerciale e persino le spettanze fiscali). Tutto il “marcio” (gli Npl, gli altri crediti deteriorati, persino i prestiti in bonis ma a rating più scadente) finirà nella bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. Non solo. Banca Intesa “compra” solo a condizione che l’acquisto sia “neutrale” sotto il profilo del patrimonio. Cioè che l’innesto dei cespiti delle due venete non obblighino Ca de Sass a modificare le proprie strategie di copertura dei “ratios” e di distribuzione dei dividendi.
Come hanno detto il ceo Carlo Messina e il patron della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti: l’affare si fa solo se ci garantisce l’intangibilità del capitale e delle cedole. In caso contrario, tanti saluti. Chiaro, lineare, legittimo: gli chiedono un intervento di emergenza, e l’emergenza si gestisce a certe condizioni. Io privato mi siedo al tavolo, ma solo se il mio cip è un euro. Tutto il resto, cioè la bellezza di 10 miliardi, ce lo metti tu, caro Stato.
Parafrasando il famoso spot pubblicitario: ti piace salvare facile, eh? Ma va tutto bene, per carità. Escluse le rovinose “missioni patriottiche” in stile Alitalia, non c’erano più alternative. Banca Intesa tutela i suoi interessi. È lo Stato che cura male i nostri. Si dica la verità ai cittadini. Si ammetta che tra le “quattro banchette”, il Montepaschi e adesso le due venete, il costo dei salvataggi a carico del bilancio pubblico (cioè a carico nostro) supera abbondantemente i 20 miliardi stanziati dal governo con il decreto di fine 2016. Si riconosca che, attraverso questi complicati arabeschi finanziari, è come se tutti noi contribuenti fossimo diventati azionisti e correntisti “virtuali” delle banche salvate, chiamati a coprire pro-quota il costo dei dissesti che altrimenti sarebbero stati interamente a carico dei soci e dei clienti “reali” di quelle stesse banche.
Senza dirlo all’Europa, abbiamo subdolamente disinnescato il bail in, e surrettiziamente replicato il bail out. La politica è arte del possibile. Tanto più in un Paese in campagna elettorale permanente, dove i crac creditizi diventano armi di distrazione di massa. Si evocano paragoni bugiardi, tipo il “Tarp” americano di otto anni fa, o il salvataggio spagnolo del Banco Popular di una settimana fa. Nel primo caso l’Amministazione Usa (al contrario del governo italiano) sborsò preventivamente 750 miliardi di dollari, mettendo in sicurezza l’intero sistema bancario e cacciando tutti i manager incapaci. Nel secondo caso il Banco Santander (al contrario di Banca Intesa) ha scucito 7 miliardi di aumento di capitale.
E qualcuno, prima o poi, ci dovrà anche spiegare perché, com’era già successo ad Arezzo o Macerata prima e a Siena poi, anche sulle due banche venete si è sprecato tanto tempo, prima di turare la falla gigantesca aperta nel fianco del mitico Nord-Est. Tra il 2012 e il 2015 la banca del cavalier Zonin ha bruciato 6,2 miliardi di valore, lasciando sul lastrico 118 mila azionisti e cumulando 1,6 miliardi di perdite. Nello stesso periodo la banca del ragionier Consoli ha distrutto 5 miliardi di valore, rovinato 90mila risparmiatori e totalizzato 1,8 miliardi di passivo. Il bagno di sangue è stato sotto gli occhi di tutti per anni, come già era successo per Mps. Nessuno ha mosso un dito. Lunghi conclavi, e rituali fumate nere. Nel frattempo, l’emorragia è dilagata. Altri 3,5 miliardi sprecati con il Fondo Atlante, e la bellezza di 65 miliardi di depositi totali fuggiti solo dai forzieri di Siena, Vicenza e Montebelluna. Cosa ci sia da celebrare, in tanta macelleria bancaria, non lo capiremo mai.
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