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Federico Rampini
Chi ha paura del trattato globale
7 Maggio 2015
Capitalismo oggi
C'è chi dice "prima le rendite e i profitti delle imprese, e chi invece dice "prima le persone", negli Usa come in Europa. I primi vogliono il TTIP, i secondi no.

C'è chi dice "prima le rendite e i profitti delle imprese, e chi invece dice "prima le persone", negli Usa come in Europa. I primi vogliono il TTIP, i secondi no. «Puntano a cambiare le regole e a liberalizzare commerci e investimenti. Ma contro i nuovi accordi di libero scambio voluti da Obama, cresce negli Usa e in Europa la rivolta dei consumatori che temono l’invasione di prodotti Ogm e lo strapotere delle multinazionali». La Repubblica, 7 maggio 2015

«TPP Free! Faremo di New York una città immune dai trattati di libero scambio». La promessa solenne risuona nell’aula del consiglio comunale. È d’accordo il sindaco Bill de Blasio. E’ d’accordo il deputato democratico Jerrold Nadler che rappresenta questa città al Congresso di Washington. Così come esistono in Italia i comuni che si proclamano “denuclearizzati”, può New York City chiamarsi fuori dai nuovi trattati di libero scambio? Naturalmente no, è un gesto politico, dal valore simbolico. Ma la dice lunga sulle resistenze che si oppongono alle nuove liberalizzazioni dei commerci e degli investimenti. Eppure, se non tutta l’America, certamente New York sta dalla parte dei “vincitori” della globalizzazione, con Wall Street che domina la finanza senza frontiere, un mercato che risucchia capitali dal mondo intero.

Lo stesso paradosso si applica alla Germania. Il suo attivo commerciale sta polverizzando tutti i record storici: vale l’8% del Pil tedesco. E’ una nazione che riemerge dalla crisi con la ricetta (squilibrata) di sempre: esportando molto più di quanto importa. Dalla globalizzazione sembra avere tratto solo vantaggi. E tuttavia è proprio in Germania che il mese scorso si sono svolte le manifestazioni più affollate per dire no ai nuovi trattati. Un partito di governo, i socialdemocratici della Spd che partecipano alla coalizione con Angela Merkel, sono risolutamente contrari. Così come negli Stati Uniti la spaccatura attraversa il partito democratico. Barack Obama vuole questi trattati con tutte le sue forze. Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts che è la beniamina della sinistra, guida la rivolta contro le nuove liberalizzazioni.

Tpp o Ttip? Attenzione alle sigle, segnalano una sfasatura nei tempi e nei dibattiti. In America al momento si parla del primo: Trans Pacific Partnership. Riguarda i paesi dell’Asia-Pacifico, con i due pesi massimi che sono Stati Uniti e Giappone, ma senza la Cina. È il primo in dirittura di arrivo. Per il Tpp Obama ha già ottenuto al Congresso il “fasttrack”: la corsìa veloce che consente un’approvazione rapida perché i parlamentari possono votare solo sì o no all’intero pacchetto, senza emendamenti su singoli aspetti. Obama ha ottenuto il “fast-track” grazie ai voti dei repubblicani, tradizionalmente liberisti. Non avrebbe mai avuto la maggioranza dei democratici. La sinistra del suo partito, gli ambientalisti, i sindacati, le organizzazioni della società civile come MoveOn, 350.org, Courage Campaign, Corporate Accountability, Democracy for America, continuano a battersi per far deragliare questo accordo: si moltiplicano le petizioni popolari, i sit-in davanti al Congresso e agli uffici dei singoli deputati e senatori.

Il trattato che interessa gli europei è in seconda posizione nella tabella di marcia, si chiama Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip). Che cos’hanno in comune Ttip e Tpp? Tre cose importanti. Anzitutto si tratta della prima revisione generale delle regole della globalizzazione dal lontano 1999 (creazione della World Trade Organization, l’arbitro del commercio mondiale), cui poi seguì nel dicembre 2001 la dirompente adesione della Cina. Secondo: questi due nuovi trattati riuniscono paesi abbastanza simili tra loro per livelli di sviluppo e garanzie di diritti (Usa, Giappone, Ue) mentre non includono i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica). Terzo: la nuova tappa delle liberalizzazioni cerca di smantellare i protezionismi occulti, fatti di barriere non-tariffarie, perché i tradizionali dazi doganali sono già scesi molto. Su questi aspetti Obama insiste nella sua campagna a favore dei nuovi trattati: «Ci danno l’occasione – dice il presidente – di scrivere regole che proteggano i nostri lavoratori, tutelino l’ambiente, i consumatori, la salute, i diritti umani. Se non siamo noi a stabilire queste regole, il commercio mondiale andrà comunque avanti, ma le regole le faranno i cinesi e con priorità ben diverse». La Dottrina Obama punta quindi a creare un “fatto compiuto”, fissare dei principi che poi la stessa Cina e altre nazioni emergenti saranno costrette ad applicare in futuro.

Perché questa argomentazione non convince una parte delle opinioni pubbliche europee? Il Ttip riguarda 850 milioni di abitanti fra il Nordamerica e l’Europa, che insieme rappresentano il 45% del Pil mondiale. Il commercio transatlantico che verrebbe influenzato dalle nuove regole del Ttip, in settori come le commesse, opere pubbliche, servizi, supera i 500 miliardi di euro all’anno. I soli investimenti diretti dagli Usa in Europa superano i 320 miliardi, quelli europei negli Stati Uniti sono un po’ più della metà. Siamo quindi nel cuore della globalizzazione “avanzata”, quella che unisce tra loro paesi ricchi, non c’entra qui la concorrenza asimmetrica con le potenze emergenti. E tuttavia si è fatta strada nel Vecchio continente l’idea – non infondata – che siano gli europei a godere oggi delle regole più avanzate in materia di salute, protezione del consumatore, qualità dei servizi pubblici. Le obiezioni al Ttip si concentrano su due aspetti. Da un lato si teme che sia il cavallo di Troia per introdurre nei supermercati e sulle tavole degli europei gli organismi geneticamente modificati, la carne agli ormoni, o altri tabù del salutismo. Ma questo problema è già risolto: l’Unione europea ha stabilito che non rinuncerà al suo “principio di precauzione”; sugli ogm resta perfino il diritto dei singoli Stati membri dell’Unione di vietarli se lo ritengono necessario. L’altro tema scottante è la clausola Investor to State Dispute Settlement (Isds), che consentirebbe alle imprese private di far causa agli Stati davanti a una corte arbitrale per annullare provvedimenti considerati discriminatori. Il pericolo è che potenti multinazionali, difese da eserciti di avvocati, possano intimidire piccoli Stati, o perfino Regioni e Comuni, per far valere i propri interessi. L’Unione europea potrebbe attenuare il pericolo, se otterrà che queste cause vengano giudicate da un’apposita corte, permanente e pubblica, non da collegi arbitrali privati.

Un punto debole resta la trasparenza. Lo rinfaccia Elizabeth Warren a Obama: «Se sono nell’interesse dei lavoratori e dell’ambiente, perché non pubblicare la totalità dei testi in discussione? ». Anche l’ultima tornata negoziale Usa-Ue, che si è svolta a fine aprile a New York, è avvenuta a porte chiuse. Le stime sui benefici di questa globalizzazione 2.0 indicano un aumento dello 0,5% del Pil europeo (che di questi tempi non è poco) grazie all’abbattimento delle “barriere invisibili” che ostacolano le imprese. Ma in passato le previsioni sui benefici del Nafta o del mercato unico europeo peccarono sistematicamente per eccesso di ottimismo. E dal 1999 in poi, la fiducia delle opinioni pubbliche nella preveggenza degli esperti è in netto calo.

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