Corte d'Assise d'Appello. Cinque anni dopo, sentenza choc per la morte del giovane detenuto. Cancellata la sentenza di primo grado che condannò sei medici del Pertini di Roma. Non accolta la richiesta di rinviare gli atti in procura. Anselmo: «Andremo in Cassazione»
«Cosa vuol dire? Che Stefano è vivo, è a casa e ci sta aspettando?». Sono le prime parole che riescono a dire, la madre e il padre di Stefano Cucchi, il geometra trentunenne morto una settimana dopo il suo arresto (avvenuto, per possesso di stupefacenti, il 15 ottobre del 2009) nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Dopo nemmeno tre ore di camera di consiglio, il giudice Mario Lucio D’Andria, a capo del collegio giudicante della prima Corte di Assise d’Appello, legge la sentenza che nessuno si aspettava, nemmeno nelle peggiore — o migliore, a seconda del punto di vista — delle ipotesi. Tutti assolti, i dodici imputati, in alcuni casi perché il fatto non sussiste, in altri per insufficienza di prove. I reati contestati, a seconda delle singole posizioni, erano abbandono di incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni ed abuso di autorita'.
Cancellata dunque la sentenza di primo grado che aveva condannato solo i sei medici per omicidio colposo (tranne una, ritenuta colpevole di falso), e confermata per i tre infermieri e i tre agenti di polizia penitenziaria la precedente assoluzione. Rifiutata la richiesta del procuratore generale di una condanna per tutti gli imputati, sia pure con diverse responsabilità e per reati diversi, e rigettata perfino la richiesta dell’avvocato di parte civile, Fabio Anselmo, di rinviare gli atti alla procura per riaprire le indagini e appurare chi, se non gli attuali imputati, causò le lesioni riscontrate — e accertate — sul corpo della vittima. Appena letta la sentenza, a dispetto di quanto temevano i carabinieri in servizio d’ordine nell’aula al secondo piano di via Romeo Romei, dai banchi dove erano seduti i familiari e gli amici di Stefano Cucchi non si è levata nemmeno una voce. Comprensibilmente in festa, invece, gli imputati, con i loro legali e congiunti.
Ilaria, la sorella di Stefano che in tutti questi anni ha combattuto strenuamente per appurare la verità, non può trattenere lacrime. «Stefano è morto di giustizia, cinque anni fa, in questo stesso tribunale dove, in una udienza direttissima, dei magistrati non hanno notato le sue condizioni — dice — Le condizioni di un ragazzo che sei giorni dopo si è spento tra dolori atroci, solo come un cane». «È stato ucciso tre volte, e lo Stato si è autoassolto – aggiungono i genitori, Giovanni e Rita Cucchi – andremo avanti, non ci fermeremo mai, lo dobbiamo a lui e agli altri ragazzi morti mentre erano nelle mani di chi avrebbe dovuto tutelare la loro incolumità». Dopo un attimo di scoramento, l’avvocato Anselmo riaccende la speranza: «Aspettiamo le motivazioni della sentenza e poi faremo ricorso in Cassazione».
Ieri mattina, prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, il penalista aveva chiesto che la sentenza di primo grado venisse annullata e che venissero «restituiti gli atti alla procura perché la sentenza è nulla alla radice, visto che si è fatto un processo per lesioni senza aver prima contestato il reato di omicidio preterintenzionale». Fabio Anselmo, mostrando alla giuria alcune gigantografie del corpo di Cucchi, ha fatto notare che il ricovero del giovane non era «avvenuto per magrezza come qualcuno vorrebbe supporre, ma per politraumatismo. Cucchi — ha proseguito Anselmo — non era tossicodipendente. Lo era nel 2003, ma in quei giorni aveva una vita del tutto normale, come ci hanno riferito alcuni testi. Agli esami clinici il funzionamento degli organi era normale». Ed è proprio questo pensiero che addolora maggiormente la famiglia Cucchi: «Era un ragazzo che tra mille difficoltà stava cercando di riprendere in mano la propria vita», mormora la signora Rita. Una sentenza «dissonante con le conclusioni della commissione d’inchieta del Senato», commenta Ignazio Marino che l’ha presieduta. «Molto soddisfatti», invece i difensori dei medici e del primario dell’ospedale Pertini secondo i quali «il punto nodale era ed è che esistono dubbi sulla causa di morte di Cucchi, e questo esclude la responsabilità del medici».Ma chi provocò a Cucchi le lesioni vertebrali accertate dagli esami autoptici e dalle perizie di parte? Per i pm del processo di primo grado, il giovane fu “pestato” nelle camere di sicurezza del tribunale prima dell’udienza di convalida del suo arresto. Una versione rifiutata dai giudici della Terza Corte d’Assise secondo i quali Stefano morì in ospedale per malnutrizione, trascurato e abbandonato dai sei medici che ieri, invece, sono stati assolti. Il pestaggio ci fu, scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado, ma «plausibilmente» fu opera dei carabinieri che lo avevano in custodia, non degli agenti penitenziari.
Di altra opinione, il procuratore generale della Corte d’Appello, Mario Remus, secondo il quale Cucchi fu picchiato dopo l’udienza di convalida. Anche se ieri Remus, in fase di replica, ha tenuto conto del fatto che qualche settimana fa, nelle ultime battute del corposo iter processuale che ha visto deporre davanti ai giudici quasi 150 testimoni, la parte civile chiese l’acquisizione della testimonianza inedita dell’avvocato Maria Tiso che, in una mail inviata al collega Anselmo, ha raccontato di essersi trovata quella mattina nel corridoio che conduce all’aula 17 del palazzo di Giustizia e di aver visto Stefano scortato dai carabinieri «in condizioni tali da far pensare a un pestaggio subito». Prove evidentemente non sufficienti per la corte d’Appello che però non ha ritenuto nemmeno di dover chiedere un supplemento d’indagine.
Uno per tutti, il commento laconico di Amnesty international Italia: «Verità e giustizia ancora più lontane
CUCCHI,INGIUSTIZIA È FATTA
di Patrizio Gonnella
Lo spirito di corpo e la tortura. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione
Nessun colpevole, dunque tutti innocenti. Nessun colpevole dunque tutti colpevoli. Nel processo per la morte di Stefano Cucchi ha vinto lo spirito di corpo, quello stesso spirito di corpo che da 25 anni impedisce al nostro Paese di introdurre il crimine di tortura nel codice penale. Uno spirito di corpo che si estende verticalmente dal basso verso l’alto, che si muove orizzontalmente tra divise e camici, che colpisce mortalmente le persone e le istituzioni.
Così accade che per quasi tre decenni il Parlamento si è sottratto a un obbligo internazionale, in quanto condizionato dai vertici della sicurezza. In questo modo hanno tutti insieme avallato l’idea che la violenza istituzionale non è una questione di mele marce bensì una scelta di sistema.
I giudici della Corte d’Appello di Roma probabilmente motiveranno l’assoluzione di poliziotti e medici sostenendo che le prove non erano sufficienti. Supponiamo che sia così. Una motivazione di questo tipo vuol dire che le prove non sono state cercate, o sono state tenute nascoste.
Nei casi di tortura vi sono poliziotti che devono indagare su colleghi. Lo spirito di corpo ha vinto. Tutti assolti e dunque tutti colpevoli. I primo colpevoli sono coloro che in questi lunghi anni hanno remato contro la criminalizzazione della tortura. Ne abbiamo sentite e viste di tutti i colori. Da chi sosteneva la tesi che bisogna torturare almeno due volte per commettere il delitto a chi ha impedito la previsione del reato pur di difendere i pm che indagano. Tutte volgarità per l’appunto.
Proprio ieri il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nelle quasi 200 raccomandazioni fatte all’Italia ha ribadito la necessità di punire i torturatori. Da qualche giorno è ripresa la discussione alla Camera di un testo di legge approvato la scorsa primavera in Senato. Un testo per molti versi inadeguato e insoddisfacente. È stato di recente audito anche il capo della Polizia, Alessandro Pansa il quale ha detto testualmente che «siamo favorevoli, ma il legislatore valuti il rischio che la fase applicativa, se non tipizza meglio la fattispecie, provochi denunce strumentali contro le forze dell’ordine che potrebbero demotivarle. Nessuna difesa corporativa da parte mia».
Ha fatto bene la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti a sentire il Capo della Polizia in modo che tutti dicano in modo trasparente quali sono le proprie idee. Alessandro Pansa ha richiamato la parola corporazione, parola che rimanda direttamente allo spirito di corpo.Va rotta la catena corporativa. Spetta alle forze politiche farlo, con nettezza. Va introdotto il principio della responsabilità individuale. In mancanza del crimine di tortura si perpetua l’impunità che riporta a responsabilità collettive gravi incompatibili con una democrazia compiuta.
Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla morte di Stefano Cucchi. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione. Detto questo noi tutti sappiamo che non è alla giustizia che dobbiamo affidare la ricostruzione della verità storica. La giustizia è per sua natura fallace. In questo caso però la verità processuale ha deciso di voltarsi in modo tragico dall’altra parte rispetto alla verità storica.
Molte volte abbiamo chiesto al Parlamento un sussulto di dignità. Lo chiediamo ancora. Chiediamo che sia approvata subito una legge contro la tortura in piena coerenza con la definizione delle Nazioni Unite. Chiediamo che ciò avvenga nel nome di Ilaria e dei genitori di Stefano, combattenti per la libertà e la giustizia.