Le costituzioni sono costruzioni, ma queste costruzioni, come anche quella cui tanto volonterosamente e a lungo si è dedicata la nostra ingegneria costituzionale, presentano sempre un aspetto, per così dire, naturalistico che non risulta aver attirato l’attenzione che merita. Eppure, proprio su questo, in ultima analisi, ci pronunceremo tra breve e sarà un pronunciamento che conterrà un giudizio, oltre che sulla costituzione che ci viene proposta, anche su noi stessi.
L’espressione "aspetto naturalistico" si riferisce a quella che i classici denominavano l’indole costituzionale dei popoli. Le costituzioni dei popoli intuitivi e sentimentali non possono essere quelle dei popoli ragionatori e speculativi; le costituzioni dei popoli molli e pigri, non quelle dei forti e laboriosi; dei pessimisti e fatalisti, non quelle degli ottimisti e fieri; degli attivi e coraggiosi, non quelle dei passivi e paurosi; dei dissipatori, non quelle dei parsimoniosi. Un despota, per esempio, è necessario per coloro che, dovendo cogliere una banana, pensano, invece di arrampicarsi, di tagliare il banano alla radice. La democrazia non è adatta ai popoli che cercano favori piuttosto che diritti, che scansano le responsabilità invece che cercarle. Accogliere nei Paesi freddi il lusso e i molli costumi degli Orientali, si è anche detto, significa darsi le loro catene.
Non lasciamoci fuorviare dall’apparente ingenuità di queste contrapposizioni settecentesche. Esse contengono una profonda verità: la più perfetta opera di ingegneria costituzionale potrebbe non valere nulla se ignora o contraddice i caratteri naturali del popolo che si vuole costituzionalizzare. «Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorché sia misurata sulla statua modellaria di Policlete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà fare uso della tua veste».
Parole di Vincenzo Cuoco contro il progetto di costituzione napoletana del 1799 che egli considerava un arbitrario tentativo di trasposizione di astratte idee costituzionali dalla Francia dell’epoca (Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Bari, 1913, p. 218).
I nostri ingegneri e sarti costituzionali probabilmente non si saranno nemmeno posti il problema. Forse, non saranno neppure stati sfiorati dal dubbio che questo sia un punto importante sul quale saranno giudicati. Più probabilmente ancora, si saranno lasciati condizionare inconsapevolmente dalla presunzione che la nostra indole sia come la loro. Ma noi, nel momento in cui ci viene chiesto di pronunciarci per mezzo del referendum, è proprio questa la domanda che ci poniamo: se siamo o, meglio, se vogliamo essere quello che essi presumono che siamo; se siamo o vogliamo essere come credono loro.
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Quali sono dunque le pulsioni profonde che la riforma costituzionale viene a solleticare o lusingare?
a) Innanzitutto la servilità. Un popolo è servile se si rallegra di poter scegliere, ogni cinque anni, un capo al quale conferire poteri illimitati. Non sembri una sintesi esagerata. Questo nuovo capo è denominato "primo ministro", ma il potere personale che questo nome innocente indica è tale da far paura. Egli dispone dei ministri a suo piacimento, nominandoli quando gli sono graditi e revocandoli quando gli diventano sgraditi. A suo piacimento dispone anche dei rappresentanti del popolo perché ogni dissenso nei suoi confronti si può concludere con il loro licenziamento, lo scioglimento della Camera e nuove elezioni: il diritto di critica è dunque ammesso, ma chi lo eserciterebbe, quando il prezzo è il suicidio? Non può invece accadere il contrario, cioè che siano i rappresentanti del popolo a licenziare il capo e a sostituirlo con un altro. Questa ipotesi è bensì prevista, ma come pura ipotesi di fantasia: occorrerebbe un voto a maggioranza assoluta dell’Assemblea, senza l’apporto dell’opposizione, cioè da parte della stessa compatta compagine che fino ad allora è stata al seguito del capo. Il che è quanto dire che non potrebbe realizzarsi mai.
Si dirà: prima di parlare di regime autoritario, si noti almeno che questo capo è pur sempre scelto con un’elezione, ogni cinque anni. Ma ciò significa solo che quel popolo che se ne rallegrasse, lo farebbe perché trova gioia nel ripetersi, cioè nell’insistere nella sua servilità. Varrebbero le parole che Rousseau indirizzava al popolo inglese del suo tempo: «pensa di essere libero, ma si sbaglia di grosso. Non lo è che durante l’elezione dei membri dei Parlamento. Appena sono eletti, è schiavo, non è nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, per l’uso che ne fa merita di perderla» (Contratto sociale, libro III, c. XV).
b) In secondo luogo, l’insicurezza e l’aggressività, degli uni verso gli altri. Ogni elezione di capo dai poteri illimitati tramite un’investitura popolare trasformerebbe l’elezione in conflitto in cui ciascuno avrebbe tutto da sperare ma anche tutto da temere, a seconda dell’esito. La propria sopravvivenza sarebbe legata alla soccombenza degli avversari e così l’insicurezza si esprimerebbe in aggressione. L’ultima tornata elettorale cui abbiamo assistito sgomenti già ci ammonisce come una sia pur parziale primizia. Gli strumenti dello scontro sarebbero i più rozzi, irrazionali e semplicistici: amore-odio, bene-male, amici-nemici. Ecrasez l’infame! potrebbe diventare la parola d’ordine dei due schieramenti che si demonizzano reciprocamente.
Né potrebbe farsi troppo conto sulle istituzioni di controllo, per mitigare i poteri del vincitore e, con ciò stesso, l’asprezza del confronto. Questo accade in effetti in diversi regimi, dove pure i cittadini eleggono il capo del loro governo. Ma lì esistono pesi e contrappesi, tradizioni e cultura politica che ne bilanciano il potere. E da noi? Il Presidente della Repubblica è reso dalla riforma una figura marginale. La Corte costituzionale, con una modifica della sua composizione, viene allineata alla maggioranza politica. La magistratura, al di là delle riforme che la riguardano, sarebbe intimorita da una concentrazione di potere politico, collegata all’investitura popolare diretta, sconosciuta negli altri Paesi che si dicono democratici. L’uguaglianza di fronte alla legge, che già non è propriamente il punto di forza delle nostre istituzioni, si ridurrebbe a principio-beffa. Il Parlamento, infine, abbiamo già visto essere reso nullo nella sua funzione, che è sempre stata la sua essenziale, di garanzia contro gli abusi del governo. Quando gli assurdi rapporti tra Camera e Senato previsti dalla riforma glielo consentissero, legifererebbe, ma sempre e solo agli ordini del capo del governo. Ogni appuntamento elettorale, data l’enormità della posta in gioco, si risolverebbe in dramma o in tragedia. Più che la Gran Bretagna, la Francia o la Spagna, ci darebbero il benvenuto taluni Paesi del Sud America o dell’ex-blocco sovietico.
c) Lo spirito cortigiano. La riforma promette un’alternanza tra lo scontro elettorale e il ruere in servitium, a cose fatte. Si potrà deplorare la disposizione a cambiare casacca a seconda del momento ma, d’altra parte, che cosa si può pretendere quando il vincitore può tutto, da lui dipendono la fortuna o la rovina della tua azienda, della tua banca, del tuo giornale, della tua casa editrice, della tua carriera? Se e fino a quando sei nelle sue mani, cercherai di ingraziartelo, almeno fino al momento in cui, pensando che stia per cadere in disgrazia, non hai più nulla da ottenere o da temere da lui. Quando nuovi capi sono all’orizzonte, i cortigiani che ti hanno adulato diventano serpenti velenosi.
d) L’atteggiamento impolitico e qualunquista. Nessun Parlamento al mondo è tanto umiliato quanto quello che deriverebbe dalla riforma. Non controlla ma è controllato; se legifera, lo fa per conto altrui; se si permette di dissentire, è sciolto. Data la sua marginalità, potrebbe anche essere soppresso o sostituito da un’astratta attribuzione di millesimi, come nei condomini, a ciascuna delle parti in campo. Se non lo è, forse è perché esso rappresenta ancora un’immagine potente e carica di storia della libertà politica ed eliminarlo sarebbe stato un po’ troppo forte; o, forse, è anche perché, ridotto in questa umiliazione, simboleggia come un trofeo la vittoria delle forze e delle mentalità antiparlamentari: quella vittoria già iscritta nell’attuale, recente legge elettorale, che ha trasformato in molti casi i rappresentanti del popolo in ignote propaggini di dosaggi di potere, clientele e familismi di partito. Non sono pochi, del resto, coloro che intendono l’annunciata diminuzione del numero dei parlamentari, operativa – se mai lo sarà – solo tra molti anni, come un ammiccamento all’eterno qualunquismo latente nel nostro Paese.
e) Il provincialismo pessimista e ripiegato su se stesso. "A casa mia": è il motto di chi crede a quella cosa che la riforma definisce federalismo (il federalismo è l’apertura della piccola patria a una patria più grande) ed è invece ripiegamento su se stessi, timore per l’ignoto, aggressività verso chi viene creduto diverso, comunitarismo organico: l’esatto contrario del federalismo. I giuristi hanno ripetutamente spiegato che nelle norme della cosiddetta devolution c’è molto più centralismo che non federalismo. Diverse competenze sono state ritrasferite al centro e il "federalismo fiscale" è reso una beffa dalla norma che vieta "in tutti i casi" all’autonomia impositiva delle Regioni (e degli enti locali) di determinare incrementi della pressione fiscale complessiva. Anche le competenze regionali "esclusive" - assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione e polizia amministrativa regionale e locale - devono pur sempre coesistere con le competenze statali, anch’esse "esclusive", circa i livelli essenziali delle prestazioni in campo sanitario, le norme generali sull’istruzione e la tutela della salute, nonché l’ordine pubblico e la sicurezza.
Ma, evidentemente, quello che conta, in questo caso, non è la realtà giuridica ma è il messaggio "culturale" di chiusura e ostilità verso il diverso. Della nostra salute, della istruzione dei nostri figli, della nostra sicurezza ci occupiamo noi perché, per l’appunto sono cose di casa nostra. La violenza concreta di questo atteggiamento, tuttavia, non tarderebbe poi a farsi sentire, ben al di là di quel che le norme costituzionali (per ora) contengono.
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Riassumiamo. L’indole costituzionale che la riforma solletica, lusinga, blandisce è questa: servilità, insicurezza e aggressività, spirito cortigiano, antipolitica e qualunquismo, provincialismo ripiegato su se stesso. Occorrerebbero troppe parole, ma sarebbero del tutto superflue, per mostrare come questi spiriti, politicamente molto ben definiti, siano agli antipodi rispetto a quelli su cui si fonda la Costituzione che viene dall’Assemblea costituente del 1946-1947. Ma riprendiamo la domanda iniziale: siamo disposti a riconoscerci in questa nuova, o forse antica indole che vogliono attribuirci? Il referendum ci interpella su questo, dunque su noi stessi, molto prima che sui contenuti giuridici. Posta così la questione, si può sperare che in molti si avverta la necessità di una reazione a una proposta che è un tentativo di seduzione dei lati peggiori del nostro carattere e di oltraggio ai suoi lati migliori.
I cittadini hanno il diritto di esprimersi su questa domanda e la nostra classe politica ha il dovere di non alterare la loro risposta. Da più parti si insiste invece sul fatto che, quale che sia il risultato del referendum, le due parti dovranno subito dopo trovare l’accordo "per una riforma condivisa", per esempio in una Assemblea o una Convenzione costituenti. Il sì e il no conterrebbero entrambi una clausola sottintesa: poi ci si metterà d’accordo. Ma su che cosa? Questo è un parlare ambiguo. Su quale terreno ci si vorrà muovere? in base a quale spirito? Una cosa è lavorare per la Costituzione che abbiamo; una cosa opposta è lavorare per la Costituzione che non vogliamo avere. Si tratta di promuovere due spiriti pubblici, due indoli costituzionali del tutto incompatibili. La condivisione, in questa situazione, nasconderebbe inganni. Anche i tentativi di puro miglioramento tecnico cascano davanti a questa alternativa.