LE ELEZIONI amministrative di oggi e di domani sono un’altra cosa dalle elezioni politiche di un mese e mezzo fa. Non rappresentano una conferma o una rivincita di quel risultato. Così pure il referendum costituzionale del 25 giugno: non è in gioco il governo ma una proposta di riforma da alcuni considerata mirabile e da altri esecrata.
Così sostengono Prodi e i partiti dell’Ulivo.
Berlusconi (ma non lui soltanto, anche Bossi, Fini e Casini) sostengono stentoreamente l’esatto contrario: il voto di oggi (venti milioni di italiani alle urne) e quello referendario del 25 giugno serviranno in primo luogo a stabilire da che parte sta la vera maggioranza, il paese reale. Serviranno ad uscire dall’incertezza su chi deve comandare. Perciò tutti alle urne e se la spallata sarà confermata dai voti, allora tutti in piazza, tutti a Roma per imporre all’imbalsamato Napolitano lo scioglimento delle Camere e il ritorno al potere dell’Uomo della Provvidenza.
Del resto lui, quell’Uomo, non ha forse scritto una lettera personale a tutti i capi di Stato e di governo d’Europa per informarli che le elezioni del 9 aprile le ha vinte lui e che ritornerà al potere entro poche settimane dopo che alcuni controlli burocratici saranno stati adempiuti? Un fatto simile non si era mai verificato. Non era mai accaduto che un candidato sconfitto si rivolgesse alle cancellerie straniere per comunicare che lui è ancora lì, presente e vittorioso.
L’altro ieri Giuliano Ferrara nella sua ultima trasmissione "Otto e mezzo", ha chiesto a Massimo D’Alema con una buona dose di malizia se sarebbe stato permesso al centrodestra di organizzare pacifiche manifestazioni di piazza.
Ovviamente D’Alema ha risposto sì. «Vogliamo metterlo per iscritto?» ha proposto Ferrara mellifluo, «un patto tra gentiluomini, non si sa mai...».
Un patto scritto tra un vicepresidente del Consiglio e un conduttore televisivo de La7? Veramente il comune senso del pudore ha fatto fagotto. Del resto nelle stesse ore Berlusconi (con Fini e Casini che si spellavano le mani con applausi entusiastici) apostrofava il suo pubblico a Milano e subito dopo a Roma adottando la retorica mussoliniana: «Siete pieni di rabbia contro questo governo?». «Sì» urlava la platea. «Siete favorevoli a non trattare su niente con quella gente?». «Sì» rispondeva il coro. «Siete pronti a muovervi senza paura? Siete pronti a venire tutti a Roma al mio primo richiamo?». «Sì, a Roma». «Non ho sentito bene, ripetete ancora». «Sì, a Roma, senza paura».
Nel frattempo alcune camionette gremite di giovanotti in camicia nera, stendardi con fiamma tricolore e fasci littori, percorrevano le vie di Roma cantando inni e minacciando vendette.
Questo è il clima. Forse sarebbe utile rasserenare l’atmosfera, distinguere i diversi appuntamenti elettorali, avviare un riconoscimento reciproco dei diversi ruoli costituzionali e politici, ma per arrivare a questo risultato bisogna essere in due come nei matrimoni.
Berlusconi ha preso un’altra strada. I suoi alleati lo seguono senza alcun distinguo. In questa situazione il rasserenamento è una favola.
Sandro Viola, in un gustoso articolo di qualche giorno fa su queste pagine, prevedeva che i giornalisti italiani, avvezzi da anni alle sciabolate antiberlusconiane dovessero ora morire di noia dopo l’uscita di scena del Cavaliere.
Purtroppo non potremo goderci questa noia riposante perché il nostro uomo è sempre lì, più vociante e aggressivo che mai. Più demagogo ed eversivo di prima. Il finale del Caimano ripreso alla lettera. Altro che annoiarsi, caro Sandro...
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Avevo pregato un mio amico imprenditore di raccontarmi il «matinée» della Confindustria dell’altro giorno nella grande sala dell’Auditorium di via dell’Architettura gremita in ogni ordine di posti. Secondo il suo resoconto (del resto confermato da tutti i giornali) il momento di maggior rilievo è stato il lunghissimo applauso, anzi la «standing ovation» tributata a Gianni Letta. Più lungo e più intenso del battimano a Montezemolo. Più che al nome di Ciampi. Più di quello alla memoria di Biagi e della intoccabile legge ribattezzata con il suo nome.
Il mio amico mi ha proposto alcune e diverse interpretazioni di quell’applauso. 1. Hanno applaudito Letta per la sua candidatura al Quirinale, poi ritirata in corso d’opera. Quasi un applauso polemico nei confronti di Napolitano. 2. Un applauso al "factotum" di Silvio Berlusconi indirizzato dunque a quest’ultimo per interposta persona. 3. Un applauso a Letta mediatore per eccellenza, contro la linea dura e avventurosa che Berlusconi sta portando avanti e che non si sa dove ci porterà.
Tu - gli ho chiesto - quale interpretazione dai? Mi ha risposto «Le prime due, la terza è fuori discussione». E credo che le cose stiano esattamente così. Ma se stanno così la questione merita attenta riflessione perché quei duemilasettecento plaudenti, anzi osannanti, non sono persone qualunque. Sono i delegati delle associazioni territoriali e di categoria degli industriali di tutta Italia; imprenditori piccoli, medi, grandi; del Nord, del Centro, del Sud; gente che sa leggere i bilanci, conosce il mercato nazionale e quello internazionale; gente che viaggia, esporta, importa, conosce i congegni del credito e delle Borse, lavora e dà lavoro, discute con la pubblica amministrazione, paga le tasse, i contributi, assume e licenzia lavoratori.
Insomma rappresenta l’Italia produttiva. Il «business». Il fatturato. Infine la borghesia, quale che sia il significato che si voglia dare a questa parola.
La borghesia produttiva.
Ebbene, questa borghesia sa le seguenti cose:
1. Il governo per il quale Letta è stato il grande e ascoltato consigliere, ricevette dal governo precedente una pubblica finanza con un deficit di 3.1 sul Pil. Leggermente al di sopra dei parametri di Maastricht; nei mesi pre-elettorali del 2001 aveva un po’ allargato i cordoni della spesa. Dopo cinque anni d’un governo munito d’una schiacciante maggioranza parlamentare il deficit nel 2006 è certificato dalle autorità europee a 4.2; la Ragioneria dello Stato lo posiziona a 4.4; il nuovo ministro dell’Economia teme che arriverà ancora più in su (4.8?) quando saranno stimati con esattezza i disavanzi delle Ferrovie, delle Poste e dell’Anas.
2. Nel 2001 l’avanzo primario del bilancio ammontava a 4.5, più di 50 miliardi di euro in cifra assoluta. Dopo cinque anni si colloca mezzo punto sotto allo zero.
3. Il debito pubblico negli ultimi due esercizi è aumentato di oltre 2 punti; si prevede un aumento ulteriore nel 2007.
La conseguenza è che le agenzie di rating minacciano di declassarlo. La Banca centrale europea ci chiede una manovra bis di 7 miliardi entro giugno per rassicurare i mercati e ci fa notare che il debito pubblico espresso in euro riguarda l’intera Eurolandia.
4. La spesa pubblica corrente è aumentata nel quinquennio di circa 3 punti di Pil.
5. Le infrastrutture, cavallo di battaglia del Cavaliere, sono ferme al palo per mancanza di fondi e la loro insufficienza è strettamente inerente alla declinante competitività del sistema imprenditoriale.
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Mi limito a ricordare questi cinque indiscutibili dati di fatto come consuntivo dei cinque anni del trascorso governo, ma dovrei ancora aggiungere le mancate liberalizzazioni dei mercati, il mancato snellimento dei processi civili e penali ed anzi il loro ulteriore appesantimento, il fallimento della politica dell’immigrazione, nonché il completo fallimento della riforma fiscale a pioggia attraverso la riduzione priva di risultati delle aliquote Irpef.
Sulla base di questo consuntivo si vorrebbe capire quali siano le ragioni di nostalgia del passato governo da parte dell’Italia produttiva, borghese, moderata, pragmatica.
Esiste una questione settentrionale? Sì, esiste. È nata dopo il voto di due mesi fa? Non direi proprio, ci vogliono anni se non decenni per far nascere problemi di quella portata. Questa questione è stata affrontata negli ultimi cinque anni? Non sembrerebbe. Però avete nostalgia del Cavaliere.
Poiché manca ogni spiegazione logica, ogni rapporto causale, ogni riscontro economico che possa spiegare quella nostalgia, mentre tutti i dati a consuntivo dovrebbero suscitare un senso di liberazione; allora bisogna cercarla, quella spiegazione, in qualche cosa di irrazionale, in un sentimento, in una ideologia, ma quale?
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Il governo di centrodestra non è stato né liberale né liberista, su questo punto sono tutti d’accordo a cominciare da Tremonti. Ha abbassato la pressione fiscale dello 0.7 per cento in cinque anni. Cioè nulla.
Però non ha regolato il mercato. Ha condonato ogni sorta di elusione o di evasione fiscale e contributiva. Ha vellicato l’antiparlamentarismo e l’antipolitica, ma poi, d’un colpo solo, ha varato una legge elettorale che riportava gli apparati di partito al vertice del sistema. Avete nostalgia di tutto questo?
Oppure vi piace il Berlusconi di oggi (che poi non è diverso da quello di sempre, con la differenza per lui non piccola di non essere più a Palazzo Chigi)? Vi piace il Berlusconi eversivo che mima una sorta di marcia su Roma per riconquistare il Palazzo? Di questo avete voglia? Sembrerebbe impossibile che i rappresentanti della borghesia produttiva, moderata, pragmatica, siano disposti a seguire l’avventurismo d’un demagogo che vuole tornare in sella subito. Rifare subito le elezioni.
Subito. Vuol dire sospendere per almeno altri sei mesi ogni possibilità di governare. Niente politica economica, Camere di nuovo latitanti, congelamento dell’Italia all’interno dell’Unione europea, rating sul debito ai minimi termini.
Sapete bene che gli effetti di quell’avventura sarebbero questi. Ed è questo che volete?
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Post Scriptum. I voti della Val d’Aosta e gli italiani all’estero non entrano nel computo per l’attribuzione del premio di maggioranza, ma fanno parte dei voti di schieramento politico. Ne consegue che la maggioranza di centrosinistra non è di 24 mila voti come finora si è detto ma di 130 mila.
Non saranno moltissimi ma nemmeno tanto pochi.