Cesco Chinello si è spento a Venezia nella notte di sabato, «tranquillo e lucido come aveva sperato», testimoniano i suoi. Era malato da un pezzo, di quelle malattie anche di fatica che afferrano i non più giovani. Gli erano diventate difficili anche le scale dell'appartamento a Sant'Elena, nella modesta casa giusto dietro l'imbarcadero dei giardini. Aveva corso sempre, da quando poco più che ragazzo era entrato nella Resistenza, e fra un'azione e l'altra avevano deciso in quattro o cinque, per svegliare una città sonnolenta, una pericolosa goliardata interrompendo uno spettacolo al Goldoni davanti ai tedeschi occupanti per leggere un appello a resistere. E poi erano riusciti a scappare, giovani e matti, fra vicoli e canali, e continuando a rendere incerta la presenza della Wehrmacht assieme alle brigate dell'entroterra. Dove continuò a correre in bicicletta, a guerra finita, per contendere metro per metro alla chiesa un Veneto profondo bianco, del quale ancor oggi Venezia resta un'isola democratica e di sinistra davanti alla marea di una Lega dilagata negli spazi della vecchia Democrazia cristiana.
I giorni di Cesco sono stati un ostinato contrappunto alla vicenda della città, che il dopoguerra trovava sospesa fra un turismo élitario e il pessimo sogno fascista degli anni Trenta - quello del «conte» Volpi - di fare un avamposto industriale della zona fra la Marittima e Marghera, pesante appendice cementificata fra la città periclitante sulla laguna e Mestre. Nel dopoguerra sarebbero cresciute le manifatture dove un tempo c'erano stati navigazione interna e commerci e barene, sarebbe arrivato lo sciagurato canale dei petroli e il Petrolchimico dei veleni. Ognuno di questi poli, che sarebbero durati assai meno del secolo breve e furono terreno di un assai poco gloriosa frangia del poco glorioso capitalismo italiano, aggrumava una manodopera che veniva dall'entroterra contadino e dalla ex città di mare.
Un'aggregazione che cresceva negli anni Sessanta fino quel 1968 che ancor oggi i residui operai veneti, specie delle metallurgie, ricordano come se fosse stato tutto loro, un risveglio tumultuoso, la conquista di impensati diritti.
Cesco Chinello, dopo aver percorso la provincia in tutte le direzioni, era diventato l'uomo di quella gente, assieme ad altri quadri operai, straordinari e ritrosi come il Peri Granziera che non so quanto a lungo abbia creduto nel partito e per niente nei gruppi. Cesco nel partito credette sul serio e a lungo, fu segretario di quella federazione a calle del Remer (da tempo non ce n'è poi stata una se non a Mestre), dove passavano anche musicisti e pittori, Gigi Nono in polemica con Zdanov e i pittori in polemica fra loro, Vedova presto deluso contro Zigaina prediletto dalla direzione romana. Vi approdavamo anche noi ingraiani, ma Cesco non veniva con noi a tarda sera, con Gigi, alla taverna della Fenice. Forse pensava di noi come aveva scritto con ironia Noventa «credevamo di stare all'osteria e invece stavamo nella storia». Lui stava nella storia quotidiana, si alzava presto, correva a Marghera, passava da una riunione all'altra, cercava di convincere i compagni e il centro di quel che stava cambiando, aveva fiducia in Ingrao e in Trentin, che la fabbrica la conosceva davvero. Ma in verità ben prima del Muro di Berlino il Pci l'aveva lasciata cadere, se pure era mai stata al centro dei suoi dirigenti, più intenti alla geopolitica che a quel conflitto che connotò il secolo. Così dopo l'undicesimo congresso anche lui fu più o meno sordamente accantonato, fatto anche deputato quando si pensava ancora alla Camera come una onorevole messa da parte.
Si interrogava sulla crescita e sulla caduta. C'è una storia di Venezia che non somiglia a nessuna altra città, nei secoli e nel Novecento, declino dopo declino cui nessuno ha voluto o saputo metter un freno - oggi ha meno della metà degli abitanti di un secolo fa, e non cessa di perderne. Cesco la conosce, la ha annotata, la ha scavata - felice quando una biblioteca privata benevolmente gli si aprì - e ha potuto inserire nel lontanissimo passato le radici o almeno l'humus di quel che aveva raccolto nel presente, vicende, lotte, nomi, vite, decisioni, rinunce, volantini - tutto. Fedele alla memoria del Pci consegnò molto di quel suo prezioso materiale al locale Istituto Gramsci pensando di metterlo in salvo, finché un giorno vi si imbatte per caso, ammucchiato su una fondamenta in attesa della passata della spazzatura. Non so chi ne fosse allora il geniale direttore. Ma fu un altro passo nella solitudine, cui solo pose rimedio l'intelligenza dell'Istituto storico della Resistenza diretto da Mario Isnenghi. C'è da riflettere sulla smania autodistruttiva degli ex partiti comunisti, che si credono una classe dirigente senza avere imparato dalla borghesia che dal proprio passato si distingue ma lo salva.
Negli ultimi anni Cesco ha aderito alle sinistre delle sinistre, interessato specie al lavoro dei Verdi - ci siamo scontrati sul Mose, difeso da me e infido per lui. Ma soprattutto ha studiato, scritto, pubblicato sui conflitti operai a Venezia, interrogandosi senza pace sugli anni Sessanta e il rovescio che li ha seguiti. Ha concluso con una autobiografia che non è di sé se non come di uno fra i molti, non solo le vicende e le idee, ma nomi, cognomi, vite, caratteri, tentativi, fallimenti, anche le poche vittorie. Una storia appassionata, di parte, raramente distratta, spietata con pochi, generosa con molti, nella quale la sua Venezia si ritroverà.
Non ha veduto l'uscita di questo suo libro che è appena finito di stampare. All'Istituto andranno tutti i materiali cui non ha potuto dare spazio. Vorrei scrivere che Cesco vivrà a lungo, come il ricordo di coloro di cui ha voluto segnare per il tempo destino e lineamenti. Ma in questo momento più mi pesa che se ne sia andato anche lui, doveva partire dopo di me, tanto pochi siamo i sopravvissuti alle guerre di classe di cui oggi nessuno più vorrebbe sentir parlare.