Nel pieno delle polemiche fra lo schieramento di sinistra e quello moderato-conservatore sul Piano Intercomunale milanese degli anni ’50, la proposta di Giovanni Malagodi per una speciale authority metropolitana a governare l’area milanese, viene liquidata dalla stampa di orientamento socialcomunista come pura tattica politica, per affossare in qualche modo l’attuazione del decentramento regionale previsto dalla Costituzione, e appunto molto avversato dal Partito Liberale.
E non c’è alcun motivo particolare per dubitare della fondatezza, anche in una prospettiva storica, di tale giudizio: l’autorità speciale metropolitana di coordinamento territoriale proposta dai liberali si colloca in relativa continuità con alcune ipotesi (tecniche, amministrative, urbanistiche) di epoca fascista, che vedevano ad esempio al centro l’impresa, il nucleo urbano maggiore … quelli che oggi potremmo chiamare gli attori forti. Mettendo in disparte sia le ipotesi partecipative dal basso che alcune spinte ideali, come quelle per un assetto spaziale non più pensato ai soli fini dell’efficienza, ma anche a quelli dell’equità.
Al convegno di presentazione della proposta authority, però, basta ascoltare l’intervento dell’esponente liberale Cesare Chiodi, “Considerazioni urbanistiche sulla Provincia Ambrosiana”, per cogliere qualche elemento di complessità in più. Perché lo stesso Chiodi, esattamente sul medesimo tema (la dimensione sovracomunale di governo del territorio milanese), era già intervenuto in modo organico almeno due volte: dieci e vent’anni prima. Nel 1925 da assessore all’Edilizia del comune di Milano, inserendo anche nel bando di concorso per il piano regolatore l’obbligo di considerare la dimensione metropolitana dei processi edilizi, infrastrutturali, socioeconomici. Nel 1936 al convegno lombardo sulla casa popolare, dove aveva declinato secondo uno schema di matrice europea il tema del rapporto casa-lavoro nella regione milanese, ipotizzando qualcosa di simile a un sistema di new-towns nel quadro di un decentramento anche produttivo concordato con l’impresa industriale. Senza dimenticare, l’infinità di interventi puntuali su varie riviste, a divulgare la cultura di piano internazionale, e a proporne contestualizzazioni normative e operative nel nostro paese. Fili conduttori di questo percorso culturale – naturalmente non privo di qualche incoerenza – da un lato la centralità dei grandi operatori economici nel determinare l’organizzazione del territorio, dall’altro la costante necessità di ricondurre le spinte ideali entro l’ambito controllabile di una disciplina scientificamente fondata, e per ciò più legittimata anche al confronto col potere dei grandi operatori. Il tutto, come già detto, in una prospettiva liberale.
Tutto questo, e naturalmente molto altro, nella bella, utile e corposa raccolta di scritti di Cesare Chiodi curata da Renzo Riboldazzi per le Edizioni Unicopli (468 pp. 30 €), che si affianca alla ripubblicazione l’anno scorso per i tipi Gangemi de La Città Moderna. Tecnica Urbanistica, un libro che nell’edizione originale della Hoepli ha rappresentato un fondamentale manuale di riferimento per generazioni di studiosi e professionisti, dagli anni ’30 al periodo della ricostruzione e oltre.
Forse più de La Città Moderna, l’antologia proposta da Riboldazzi propone un aspetto della cultura urbanistica italiana assai poco conosciuto fuori dalla solita cerchia di studiosi più o meno specializzati. Ovvero quello di un percorso complementare ma distinto rispetto a quello prevalente (e pressoché unico, nella pubblicistica non di settore) dell’architetto demiurgo che progetta il territorio così come disegna oggetti o edifici. Basta scorrere, titoli, temi, testate e occasioni degli interventi di Chiodi, per cogliere l’estrema complessità e articolazione storica delle culture che via via confluiscono a formare prospettive cangianti di un territorio che a sua volta non è mai lo stesso (e come potrebbe esserlo?), e soprattutto non mai è possibile sintetizzare in un “disegno”.
In uno degli ultimi testi - una critica alla confusione decisionale e disciplinare della pianificazione intercomunale milanese - Chiodi mette educatamente in ridicolo la scelta di passare d’incanto dal “piano-progetto” al “piano-processo”, ovvero di abbandonare uno slogan basato su un disegno, a favore di un altro slogan, stavolta basato sulla discrezionalità delle decisioni. E si chiede: siamo ancora nel capo della pianificazione, oppure altrove?
Una domanda le cui possibili risposte si possono anche trovare nella lunga introduzione del curatore, che da un lato tenta di ricondurre a unità il lunghissimo percorso (da un testo di tecnica stradale quasi contemporaneo all’affondamento del Titanic, a una critica “sociale” del progetto realizzato di Brasilia), dall’altro ne sottolinea molte sfaccettature e alcune contraddizioni.
Una delle preoccupazioni principali di Riboldazzi, sembra essere quella di contestualizzare il pensiero di Chiodi sulla città nel quadro dei suoi principali riferimenti internazionali. Il che aiuta a comprendere e chiarire il suo ruolo fondamentale (e, appunto, sinora abbastanza in secondo piano) di “maestro” per generazioni di studiosi e professionisti. A partire, ad esempio, dalla straordinaria modernità dello schema territoriale per Foggia (1927) con la corona delle newtowns o borghi rurali, separate dalla città centrale da una greenbelt agricola, significativamente riportato in copertina, e che basterebbe solo accostare ai progetti di sventramento suoi contemporanei (come quello di Veccia per Bari) per un impietoso confronto, anche sul versante del “piano-progetto”.
Emerge forse un po’ meno, dalla prospettiva critica scelta dal curatore, proprio quello che secondo me rappresenta uno degli aspetti più interessanti del contributo di Chiodi, ovvero il suo collocarsi praticamente da subito in quello che parecchi lustri più tardi qualcuno chiamerà “piano-processo”, facendolo appunto sorridere.
Un ruolo da co-protagonista delle grandi decisioni naturalmente svolto nella discutibile prospettiva della fede liberale, della collocazione sociale e culturale vicina al mondo delle “combinazioni finanziarie e provvidenze amministrative” (come le definiva il Giovannoni) senza le quali anche i migliori progetti sono condannati a coprirsi di polvere sugli scaffali degli uffici tecnici. Un ruolo che in parte recupera e aggiorna in modo originale più l’approccio degli ingegneri alla città del primo periodo igienista-efficientista, che quello delle grandi utopie spaziali di architetti e riformatori (sempre che si vogliano considerare separati questi due mondi).
In conclusione, questa raccolta curata da Renzo Riboldazzi, completa di schede e guida all’Archivio Chiodi, mette a disposizione sia uno strumento di facile accesso ad aspetti davvero poco studiati della disciplina urbanistica italiana del ‘900, sia una nuova prospettiva di collocazione nel contesto culturale europeo e mondiale. Un libro da non perdere.
Nota: l’antologia, per quanto molto estesa e articolata, non è esaustiva. Ad esempio mancano le “Considerazioni urbanistiche sulla Provincia Ambrosiana” citate in apertura, nonché molti altri testi e articoli di Chiodi. Qui su Eddyburg sono anche disponibili in ordine cronologico: Per una scuola di urbanismo (La Casa, feb. 1926); Lo sviluppo periferico delle grandi città in Italia (intervento al congresso FIHUAT, Roma 1929); Urbanistica Rurale (intervento al convegno degli Ingegneri per il potenziamento dell’Agricoltura a fini autarchici, 1938); Urbanistica nazionale o urbanistica provinciale? (l’Ingegnere, dicembre 1951). Sul convegno del Partito Liberale per la Provincia Ambrosiana, vedi anche l’intervento generale di Giovanni Malagodi. Una nota biografica su Cesare Chiodi è disponibile anche su Wikipedia; del medesimo volume curato da Renzo Riboldazzi, vedi anche la recensione di Lodo Meneghetti (f.b.)
Scarica il pdf di questa recensione, con allegata la riproduzione della tavola del concorso per il Piano Regolatore di Milano 1926-27, progetto motto Nihil Sine Studio, di Cesare Chiodi con Giuseppe Merlo e Giovanni Brazzola