Sabato scorso, durante la manifestazione svoltasi a Gerusalemme, mi sono guardato intorno e ho visto nelle strade un fiume di gente. Migliaia di persone che da anni non facevano sentire la propria voce. Che, chiuse nei loro problemi e nella loro disperazione, avevano perso ogni speranza di un cambiamento.
Non è stato facile per loro unirsi alle urla ritmate dei giovani coi megafoni. Forse, non essendo abituate ad alzare la voce, si sono sentite imbarazzate, timorose di gridare. E in coro per di più. A tratti avevo l´impressione che ci guardassimo stupiti, perplessi e un po´ increduli di ciò che ci usciva di bocca: eravamo davvero una "folla" rabbiosa che agita i pugni come nelle manifestazioni in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Grecia? Volevamo essere una folla come quella? Avevamo intenzioni serie quando gridavamo a ritmo cadenzato "ri-vo-lu-zio-ne!"? E che accadrà se avremo "troppo successo"? Se i cerchi che tengono insieme questo fragile Paese si spezzeranno? Se le contestazioni e l´impeto si trasformeranno in anarchia?
Ma dopo qualche passo è successo qualcosa, qualcosa che è entrato nel sangue. Il ritmo, lo slancio, l´essere insieme. Non un "insieme" minaccioso e senza volto ma un insieme multiforme, sfaccettato, confuso, famigliare, pervaso da un forte senso di "ecco, stiamo facendo la cosa giusta, finalmente stiamo facendo la cosa giusta". E a quel punto è affiorato lo stupore: dove siamo stati finora? Come abbiamo potuto lasciare che tutto questo accadesse? Accettare che i governi da noi eletti trasformassero la nostra salute e l´istruzione dei nostri figli in un lusso?
Non levare un grido quando i funzionari del ministero del Tesoro schiacciavano la protesta degli assistenti sociali e ancor prima quella dei disabili, dei sopravvissuti alla Shoah, degli anziani, dei pensionati? Come abbiamo potuto, per anni, condannare i bisognosi e gli affamati a una vita di umiliazione e delegare la loro assistenza alle mense dei poveri, agli enti di carità? Come abbiamo potuto abbandonare i lavoratori stranieri alle angherie di oppressori e persecutori, di mercanti di schiavi e di donne? Come abbiamo potuto rassegnarci a una prepotente politica di privatizzazione che ha sgretolato tutto ciò che avevamo caro: la solidarietà, la responsabilità e l´assistenza reciproca, la sensazione di appartenere a un solo popolo? I motivi di questa indifferenza sono molti, si sa, ma a mio parere ciò che ha sconvolto più di ogni altra cosa i sistemi di controllo e di allerta della società israeliana è stata la profonda spaccatura generata dall´occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Occupazione che ha fatto affiorare i lati negativi e malati della nostra società e noi, forse per paura di affrontare ad occhi aperti la realtà, ci siamo abbandonati con entusiasmo a ogni genere di narcotizzanti e di anestetizzanti. A volte guardavamo in faccia la realtà. A qualcuno piaceva molto, altri ne erano inorriditi e disgustati. Ma anche questi dicevano sospirando: le cose stanno così. Quasi questa fosse una situazione ineluttabile, un castigo divino. E oltretutto abbiamo permesso alle televisioni commerciali di riempire il vuoto della coscienza collettiva descrivendoci in termini di predatori in lotta per la sopravvivenza che si accaniscono gli uni contro gli altri disprezzando i deboli, i diversi, i "brutti", gli "stupidi", i "poveri". Da tanti anni ormai abbiamo smesso di dialogare, e sicuramente di ascoltare. Come sarebbe infatti possibile in questo clima di "arraffa più che puoi" non aggredirci a vicenda, razziare? In fin dei conti è quello che ci dicono di fare in tutti i modi possibili: ognuno per sé.
E più queste incessanti schermaglie ci indebolivano più era facile controllarci, manipolarci, stordirci, vittime di un occulto ed efficace "divide et impera". E così, per i detentori del capitale, del potere e degli organi di stampa, l´occuparsi di questioni cruciali si trasformava in uno scontro tra "chi ama il Paese e chi lo odia", "chi gli è fedele e chi lo tradisce", "chi è un buon ebreo e chi ha dimenticato di esserlo". Ogni dibattito razionale finiva immerso in uno sciroppo di sentimentalismo, di patriottismo e di nazionalismo kitsch, di ipocrita virtuosità e di vittimismo. Un poco alla volta ci è stata preclusa la possibilità di criticare lucidamente ciò che stava accadendo. Israele si è ritrovato a mantenere verso i propri cittadini un atteggiamento totalmente in contrasto con i suoi valori e ideali di un tempo.
Ma ecco che, improvvisamente e contrariamente a ogni previsione, è accaduto qualcosa. La gente si è svegliata, si è aperta a un´iniziativa che ancora non si sa dove ci porterà, che non è ancora del tutto comprensibile o descrivibile a parole ma che si chiarisce e prende forma leggendo gli slogan che, usciti d´un tratto dal guscio dei cliché, si trasformano in sentimenti vivi: "Il popolo vuole giustizia sociale, non carità!", e altre frasi e formule di epoche passate. A tratti, nell´aria, si avvertono i segnali di una possibile guarigione, di una rettifica, e torna qualcosa di dimenticato: il rispetto per noi stessi. Per il singolo e per tutto Israele.
C´è una forza enorme, un po´ illusoria e inebriante, in questo risveglio. Sarebbe allettante farsi trascinare dall´euforia (e da una sensazione di rinnovata gioventù). Sarebbe facile cadere nell´illusione che stiamo di nuovo distruggendo il vecchio mondo. Ma le cose non stanno esattamente così. Il vecchio mondo non è del tutto da buttar via. Ha ottenuto anche dei buoni risultati, soprattutto nel mantenere la stabilità economica mentre altre nazioni collassavano. Risultati che, peraltro, permettono ora al movimento di protesta di manifestare liberamente le proprie aspirazioni nonché di realizzarne qualcuna. Per questo l´attuale lotta deve esprimersi in un linguaggio totalmente diverso da quello delle precedenti. Più di ogni altra cosa deve basarsi sul dialogo, accomunare e non dividere, incentrarsi sui princîpi, non su opportunismi e consorterie. Solo così l´attuale iniziativa potrà mantenere il grande sostegno pubblico che ha avuto finora. Proprio la genericità del movimento di protesta permette a ogni gruppo che ne fa parte di mantenere le proprie idee politiche e convinzioni, contrarie le une alle altre, eppure – per la prima volta in decenni – di promuovere anche una piattaforma comune, civile e umana, e persino provare orgoglio di appartenere a questa comunità. Chi in Israele potrebbe permettersi di rinunciare a risorse enormi come queste?
L´attuale movimento di protesta e la sua onda d´urto propongono un possibile dialogo tra chi, da decenni, non si parla più. Tra classi sociali diverse e distanti, tra religiosi e laici, tra arabi ed ebrei. In questo processo di possibile identificazione comune potrebbe svilupparsi un dialogo più realista ed empatico tra la destra e la sinistra, per esempio riguardo all´indifferenza della sinistra verso gli evacuati dalla striscia di Gaza. Un dialogo che potrebbe anche salvare qualcosa del senso di solidarietà reciproca al quale un paese come il nostro non può permettersi di rinunciare.
È facile criticare e dubitare di un movimento giovane. In genere è sempre più facile trovare ragioni per non agire in maniera ferma e coraggiosa. Ma chiunque presti ascolto alle aspirazioni recondite dei manifestanti, capirà che forse si sta aprendo una finestra su un futuro diverso. Forse a questo si riferiva una ragazza che durante il corteo di Gerusalemme mi ha detto: «Guardi, la dirigenza è ancora vuota di contenuto, come lei ha detto nel suo discorso in Piazza Rabin nel 2006, ma il popolo non lo è».
Traduzione di Alessandra Shomroni