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Giuseppe Onufrio
Ce n'est qu'un debut, continuons le combat
14 Dicembre 2015
Clima e risorse
La cronaca di Anna Maria Merlo e il commento di Giuseppe Onufrio. Finalmente qualcosa è cambiato. Prodotto di altri cambiamenti e spinte.

La cronaca di Anna Maria Merlo e il commento di Giuseppe Onufrio. Finalmente qualcosa è cambiato. Prodotto di altri cambiamenti e spinte. Il manifesto, 13 dicembre 2015

COP21: C’È L’ACCORDO.
E’ STORICO?

di Anna Maria Merlo
Riscaldamento climatico. Suspense fino all'ultimo. Approvato un testo che fa dei passi avanti e ha vari difetti. Importante perché è un accordo multilaterale e le mentalità stanno cambiando. Adesso ci saranno le ratifiche degli stati. Un successo per la presidenza francese»

Suspense fino all’ultimo, poi un colpo di martello di Laurent Fabius e di Christiana Figueres dell’Onu alle 19,28, la Tour Eiffel scatenata con lampi di luce: l’accordo di Parigi della Cop21 è approvato. Una “svolta storica”, come afferma Fabius, presidente della Cop21, che parla di accordo “giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”? Addirittura “un messaggio di vita”, come lo ha definito François Hollande dopo un riferimento alla “Francia straziata” dagli attentati? Un compromesso con delle pecche, come ha affermato Kumi Naidoo di Greenpeace, che vede “un accordo che mette le energie fossili nella parte sbagliata della storia”, ma “non risponde alla domanda: come arriveremo a realizzare gli obiettivi”? Un testo che non fornisce “nessuna garanzia di sostegno per i più colpiti dall’impatto del climate change”, come ha commentato Tasneem Essop del Wwf? Una delusione, come affermano molti militanti che hanno manifestato ieri a Parigi, che non fermerà il riscaldamento climatico che corre verso +3° al minimo? “Polvere negli occhi”, nel giudizio degli Amis de la Terre? Comunque, come afferma l’ambasciatore del clima Nicola Hulot, la mobilitazione è stata tale che “più nulla la fermerà”.

Dopo due settimane estenuanti, con varie notti bianche, un testo di accordo di 31 pagine e 29 articoli è stato presentato ieri mattina ai delegati, dal ministro Laurent Fabius, con la voce ad un certo punto rotta da un quasi-singhiozzo. La prova, in negativo, che il testo ha un certo peso è venuta ieri pomeriggio: la seduta plenaria per arrivare all’approvazione, che avviene per consenso, che doveva aver luogo alle 15,30 è stata rimandata di varie ore. Fino a sera, ancora chiarimenti su alcuni punti, soprattutto una perplessità Usa (su un “shall” legato ai “targets” dei paesi sviluppati all’art.4.4) per timore di dover passare di fronte al Congresso. L’iter prevede l’adozione da parte dei 195 paesi della Cop21 (più la Ue) durante il 2016. L’accordo sarà operativo quando verrà approvato da almeno 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas a effetto serra, per entrare in vigore nel 2020, alla scadenza del Protocollo di Kyoto, ormai moribondo. “Siamo quasi alla fine della strada, senza alcun dubbio all’inizio di un’altra”, ha riassunto Fabius. “Bisogna finire il lavoro”, ha insistito ieri mattina il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Le forti tensioni che hanno accompagnato il consenso mostrano un aspetto che non è scritto nero su bianco nel testo: non tutti usciranno vincenti dalla lotta al riscaldamento climatico, è tutto un modello economico che deve essere messo in causa.

«La Francia vi scongiura di accettare il primo accordo universale sul clima», ha chiesto François Hollande, che attende anche ricadute interne di un successo internazionale. La principale qualità dell’accordo è di essere “universale”, cioè un’intesa multilaterale, importante e in contro-tendenza in un periodo di guerre e di divisioni. La Francia ha difatti legato la lotta contro il disordine climatico alla pace. La principale qualità dell’accordo è “di aver svegliato le coscienze”, riassume un militante ecologista presente alla catena umana al Champs de Mars ieri pomeriggio. Tra le mancanze, l’assenza di riferimento ai diritti umani, all’uguaglianza di genere, ai diritti delle popolazioni indigene, alla sicurezza alimentare.

Il testo è un compromesso a 195 e ha tutte le qualità e tutti i difetti di un’operazione diplomatica. “L’accordo non sarà un successo per nessuno se ognuno lo legge alla luce dei propri interessi”, ha avvertito Hollande, facendo riferimento al fallimento di Copenaghen nel 2009. “Il progetto conferma il nostro obiettivo centrale, vitale, di contenere l’aumento della temperatura media ben al di sotto dei 2° e di sforzarsi di limitare l’aumento a 1,5°” ha riassunto Fabius. Nel testo non c’è nessuna cifra precisa sulla percentuale di gas a effetto serra che dovrà diminuire: solo un impegno all’”equilibrio” nella seconda metà del secolo. Sarà la responsabilità degli stati, in 185 hanno preso degli impegni presentando ognuno i propri Indc (Intended Nationally Determined Contributions). Il problema è che, sommando queste promesse, non verrà rispettato l’impegno dei 2° (tanto meno, quindi, di 1,5°), ma il riscaldamento climatico salirà di 3°, se non di più. Il testo è detto “giuridicamente vincolante”: ma non ci sono sanzioni per chi non rispetta gli impegni e l’Onu non ha gli strumenti per farli rispettare. Questo “vincolo” significa in sostanza che ogni paese decide per se stesso sugli sforzi di riduzione di gas a effetto serra. Un meccanismo che diventerà un po’ più impositivo con la “trasparenza” sulle azioni intraprese: ma alcuni paesi emergenti, Cina e India in testa, rifiutano di sottomettersi agli stessi controlli del Nord sul loro operato.

Nel testo finale si istituisce la “revisione” degli impegni, “ogni 5 anni” e “al rialzo”. Per il momento, la prima “revisione” è prevista per il 2025, con un “bilancio” nel 2023. Una cinquantina di paesi (dove c’è la Ue) si sono riuniti in una “grande coalizione” per chiedere un’anticipazione dei tempi della revisione. C’è un’attenzione per le foreste, mentre gli oceani sono assenti, che pure sono i principali ricettori di Co2.

Il testo accoglie la “differenziazione” delle responsabilità, cioè il Nord deve agire con maggiore forza del Sud del mondo. Ma l’accordo resta nel vago, non ci sono precisazioni con delle cifre al riferimento, comunque un passo avanti, alla “necessaria cooperazione su perdite e danni”, a favore dei paesi più colpiti e più poveri. “E’ un accordo dove gli interessi dei più poveri, in particolare l’adattamento (all’impatto del climate change) non è sufficientemente preso in conto – osserva Tim Gore di Oxfam – abbiamo la nozione di perdite e danni, ma non ci sono le compensazioni, non ci sono sufficienti garanzie che i finanziamenti per l’adattamento proseguiranno dopo il 2025, mentre sappiamo che i costi del climate change continueranno a crescere”. Stessa preoccupazione per Samantha Smith del Wwf: “non c’è garanzia di assistenza per i paesi più vulnerabili per adattarsi al climate change”. Non viene detto niente di preciso sui trasferimenti di tecnologia, che il Sud e in particolare il gruppo Like Minded Developing Countries (Cina, India, Argentina, Cuba, Egitto) aspetta, mentre il Nord frena. Nel corpo centrale dell’accordo non c’è il riferimento ai 100 miliardi di dollari l’anno, promessi dal Nord al Sud del mondo a Copenaghen. Questa cifra è relegata in Allegato (su richiesta Usa, cosi’ Obama evita di dover far votare il Congresso, che è dominato dai Repubblicani con una forte presenza di negazionisti del clima), ma definita un “minimo”.

I paesi petroliferi hanno tolto dal testo la parte sul prezzo del carbonio. Si tratta di una tassa, che viene decisa a livello nazionale o per gruppi di paesi. Secondo Bill McKibben, co-fondatore dell’ong 350​.org, “adesso tutti i governi sembrano riconoscere che l’era delle energie fossili deve finire in fretta. Ma la potenza dell’industria fossile trasuda dal testo. La transizione è talmente ritardata, che nel frattempo avranno luogo immensi guasti climatici, perché adesso la questione cruciale è il ritmo, i militanti devono raddoppiare gli sforzi per indebolire questa industria”. Ma in questo periodo il calo del prezzo del petrolio soddisfa i consumatori, che pagano meno la benzina. Una contraddizione tra le tante. Nel testo mancano cifre precise sulle energie rinnovabili. “Conosciamo la strada più breve per andare verso 1,5° di riscaldamento – spiega Jean-François Juillard, direttore di Greenpeace France – passa per la conversione alle energie rinnovabili. Se Parigi deve portare a un punto d’arrivo, l’accordo ci porta fuori dalla strada più corta. Altri protagonisti restano pero’ sulla buona strada”.

CE N'EST QU'UN DEBUT
E ALLORA NON È MALE
di Giovanni Onufrio


A Parigi è successo qualcosa di storico. Anche se il testo approvato dai 195 capi di stato non è quell’accordo vincolante e ambizioso che servirebbe a fermare i cambiamenti climatici al di sotto della soglia dei 2°C — e tantomeno al di sotto di 1,5°C -, comunque mette in moto un processo necessario, anche se non ancora sufficiente, a centrare l’obiettivo.La coalizione, presentata a sorpresa negli ultimi giorni, che riunisce Ue, Usa e Paesi africani, cui si è aggiunto poi il Brasile, porta a casa la citazione dell’obiettivo a 1,5°C (mai rientrato finora in nessun testo).
E porta inoltre a casa un riferimento all’obiettivo di raggiungere emissioni nette nulle nella seconda parte del secolo. Questo secondo obiettivo, vera questione su cui si sono scontrati i diversi interessi in campo, pur scritto in modo non privo di ambiguità (e del resto nessun trattato è del tutto privo di ambiguità) è rilevante.

Infatti, facendo riferimento all’analisi scientifica dell’Ipcc ha però un’implicazione logica: la necessità di eliminare le fonti fossili entro il 2050 e azzerare le altre emissioni entro il 2080, come analizzato dall’Ipcc e sottolineato dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (Uned) di recente. In questo senso, come ha dichiarato Kumi Naidoo, direttore di Greenpeace International, l’accordo mette dalla parte sbagliata della storia i produttori di fonti fossili.

Sul versante dei contributi finanziari, i 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 al 2025, che successivamente dovrebbe essere aumentato, non è adeguato alle necessità dei Paesi poveri che pagano e pagheranno i costi più alti dei cambiamenti climatici. Né i riferimenti ai popoli indigeni sono sufficienti, non essendovi un impegno preciso contro la deforestazione, aspetto cruciale per molti di quei popoli.

La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, principale esito della Conferenza di Rio del 1992, rimane nei fatti l’unico vero tavolo negoziale per tentare una governance globale oggi. Dunque ha a che fare anche con le prospettive di pace su scala globale a medio-lungo termine, e il processo che esce da Parigi può consentire di orientare le politiche pubbliche. Tutto ciò non basterebbe a dare speranza se non avessimo, allo stesso tempo, tecnologie e misure che possono dare una risposta sia ai cambiamenti climatici che a maggiore equità e accesso alle risorse energetiche. Su questo c’è oggi ampia consapevolezza, come testimonia un recente rapporto di Goldman Sachs che identifica quattro tecnologie che, in virtù della loro costante riduzione dei costi, possono cambiare le cose: il solare fotovoltaico, l’eolico a terra, i sistemi di illuminazione Led e i veicoli elettrici. Anche se mobilità sostenibile non significa assolutamente solo auto elettriche, queste ne fanno parte.

Nel motore di un’auto elettrica ci sono una dozzina di pezzi e non quasi duecento come in un motore a benzina o diesel. Il punto cruciale per entrare in modo consistente nel mercato sta nel costo e nell’autonomia delle batterie, e nell’esistenza di una rete di ricarica. I costi delle batterie stanno rapidamente scendendo e al contempo cresce la loro capacità, mentre la rete di ricarica è una infrastruttura da sviluppare ma ampiamente fattibile. Inoltre avere auto che si collegano alla rete per ricaricarsi sarà una componente che potrà interagire utilmente nelle nuove reti intelligenti. Questa evoluzione è tecnologicamente fattibile e vicina, con buona pace di Marchionne.
Un cambio di paradigma energetico è già in corso, pur se variamente ostacolato dagli interessi fossili ancora ben presenti nel mercato e nelle politiche, e l’accordo di Parigi dà un riferimento e consente di accelerare un processo e una direzione. Speriamo il governo Renzi si adegui finalmente, cessando di ostacolare le rinnovabili e promuovendo trivelle in ogni dove.

Come già scritto in queste pagine, di per sé quest’accordo da solo non basta e va considerato un punto di partenza: la partita vera per una grande trasformazione energetica e ambientale dell’economia inizia adesso. E non sarà comunque una partita facile.

L'autore è direttore di Greenpeace Italia
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