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“L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra”: queste parole furono pronunciate da Albert Schweitzer, il grande pensatore premio Nobel per la pace, nel 1953, quando le esplosioni delle bombe atomiche nell’atmosfera stavano diffondendo atomi radioattivi e cancerogeni su tutto il pianeta. Lunghe lotte portarono alla cessazione delle esplosioni nucleari nell’atmosfera, poi anche di quelle nel sottosuolo; poi venne la distensione fra le due superpotenze, USA e URSS e poi la scomparsa dell’URSS che avviò un’era di relativa pace. Sorsero nuovi giganti industriali,e una ondata di progresso tecnico-scientifico in tutto il mondo; cominciò un aumento dei consumi e dell’uso dell’energia e delle risorse naturali, accompagnato da un brusco aumento della diffusione nel pianeta di rifiuti solidi e liquidi che contaminavano le terre e gli oceani, e di gas come anidride carbonica, metano, composti clorurati, eccetera, che modificarono rapidamente la composizione chimica dell’atmosfera.
Già nei primi anni del Novecento alcuni chimici come Arrhenius e Vernadskij avevano fatto quattro conti e avevano spiegato che un aumento della concentrazione di tali “gas serra” nell’atmosfera avrebbe portato un aumento della temperatura media della superficie dei continenti e dei mari, con un turbamento di quel delicatissimo e fragile equilibrio termico da cui dipendono le piogge e la formazione dei ghiacciai permanenti e dei deserti, la circolazione delle correnti che spostano il calore da una parte all’altra dei grandi oceani, scaldando alcune zone fredde e rinfrescando altre, rendendo fertili le terre nordiche e gradevoli quelle tropicali.
Ben presto si è visto che l’aumento della temperatura media del pianeta provoca la fusione di una parte dei ghiacciai polari con successive reazioni a catena: nella trasformazione dell’acqua solida in acqua liquida masse di acque fredde e prive di sali vengono miscelate con le acque saline del mare; inoltre dai ghiacciai che fondono si libera il metano, intrappolato da tempi antichissimi, che si disperde nell’atmosfera e contribuisce anche lui ai cambiamenti climatici. Tutte reazioni di cui si vedono le conseguenze certe sotto forma di più frequenti violente tempeste o lunghe siccità, di avanzata dei deserti in alcune zone, di più intensi flussi dei fiumi in altre.
Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere contenuti attraverso una limitazione delle attività umane inquinanti, ma qualsiasi tentativo in questa direzione è finora fallito perché danneggia potenti interessi economici, gli affari, le finanze, le imprese, i produttori di petrolio e di energia o gli sfruttatori delle terre agricole e delle foreste
Già novanta anni fa i biologi matematici Volterra e Kostitzin avevano spiegato che l’intossicazione dell’ambiente dovuto ai rifiuti delle attività dei viventi porta ad un inevitabile sofferenza e declino delle popolazioni che tale ambiente occupano, tanto più rapido quanto maggiore è la produzione di rifiuti. E quarant’anni fa Commoner (“Il cerchio da chiudere”) aveva scritto che i guasti ambientali sono proporzionali al “consumo” procapite di merci e risorse naturali e alla conseguente produzione di scorie. Temi poi ripresi dal libro sui “Limiti alla crescita”. Tutte cose ridicolizzate o dimenticate o ignorate dal potere economico e dalle autorità politiche perché disturbano il ”normale” andamento delle cose.
Che fare per, almeno, attenuare costi e dolori ?
Ci sono varie alternative: quella attuale è andare avanti come al solito ignorando il fatto (certo) che ci saranno sempre più frequenti disastri ambientali come quelli che hanno devastato la bella Nuova Orleans, o le Filippine, o le fortunate isole e coste turistiche, e rimediando i danni con i soldi. In Italia si invoca lo stato di calamità naturale che consiste nel chiedere soldi pubblici per risarcire chi perde la casa, e i beni o i raccolti, o i macchinari delle fabbriche, o per ricostruire strade e ferrovie e scarpate e ponti travolti dalle intemperie o dalle frane e alluvioni. Soldi che vengono poi spesi in genere per ricostruire negli stessi posti che saranno di sicuro devastati da eventi futuri.
La seconda alternativa è offerta dalla recente invenzione della resilienza, cioè dell’adattamento alle prevedibili catastrofi senza fare niente per prevenirle. Si sa che le tempeste tropicali e l’aumento del livello degli oceani potranno danneggiare le strutture costiere: pensiamo allora a costruire edifici su piloni, barriere nel mare per proteggere le rive; si sa che le più frequenti e intense piogge provocano frane e alluvioni: pensiamo a costringere i fiumi dentro canali e argini artificiali. La fantasia dei resilientisti è senza fine nel suggerire come adattarsi alla ”cattiveria” della natura e del pianeta senza ricorrere a divieti che rallenterebbero il glorioso cammino della crescita economica.
Ci sarebbe un’altra soluzione; dal momento che si può interrogare la natura e prevedere come circoleranno le acque e le masse d’aria in conseguenza di quello che stiamo facendo al pianeta e dal momento che non sembra ci sia nessuna ragionevole possibilità di frenare le modificazioni in atto, cioè di consumare meno energia o di rallentare i consumi, si potrebbe cercare almeno di non occupare gli spazi, pure economicamente appetibili, dove si manifesteranno le forze distruttive della natura. La chiamavano pianificazione territoriale ed era insegnata anche in cattedre universitarie ed era stata raccomandata e spiegata da studiosi, ed era perfino stata ascoltata, se pure non attuata, da alcuni uomini politici illuminati e presto spazzati via. Perché perfino il minimo rimedio della pianificazione presuppone lo “sgradevole” coraggio di dire di no, di vietare la presenza umana nelle zone ecologicamente fragili ed esposte a frane, marosi, tempeste e ad altri eventi catastrofici.
Il divieto di costruire opere permanenti, ad esempio a meno di cento metri di distanza dalla riva del mare o dei fiumi, per permettere alle onde e alle acque di recuperare i propri spazi naturali, una minima azione di prevenzione, priva l’uso delle zone più appetibili e ne danneggia i proprietari; un divieto inaccettabile perfino allo stato che, teoricamente, sarebbe il proprietario di parte delle coste e rive, come dimostra la frenesia di vendere le spiagge ai “concessionari”, dopo che essi hanno già devastato le zone ricevute in affitto.
Insomma la pianificazione e la prevenzione non rendono niente ma anzi costano e disturbano la proprietà (privata ma anche pubblica); poco conta che tali costi permettano “ad altri” di risparmiare costi futuri. Nessuna ragionevole persona, nella società del libero mercato, deve spendere neanche un soldo pensando “ad altri”, non al prossimo vicino e tanto meno al prossimo del futuro. Quando ci fanno vedere alla televisione le file di cadaveri, le persone disperate nel fango, al più rivolgiamo un pensiero a “quei poveretti”, fra una forchettata e l’altra. E così, con allegra incoscienza e ignoranza di singoli e di governanti, si corre spensieratamente verso un ancora più sgradevole futuro.