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Gianni Tognoni
Carta di Algeri, 40 anni dalla parte dei diritti dei popoli
1 Luglio 2016
Democrazia
«Il 4 luglio 1976, in Algeria, veniva proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Un'intera sezione dedicata ai "diritti economici" contro pretese coloniali» Duccio Facchini intervista Gianni Tognoni.
«Il 4 luglio 1976, in Algeria, veniva proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Un'intera sezione dedicata ai "diritti economici" contro pretese coloniali» Duccio Facchini intervista Gianni Tognoni.

Altraeconomia, 30 giugno 2016 (p.d.)

“Coscienti di interpretare le aspirazioni della nostra epoca, ci siamo riuniti ad Algeri per proclamare che tutti i popoli del mondo hanno pari diritto alla libertà”.Così, già nel preambolo, iniziava il suo cammino la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, il 4 luglio di quarant’anni fa. Un “foglio di carta”, come ebbe a descriverla Lelio Basso, uno dei suoi padri, nato dalla decennale esperienza del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra - o Tribunale Russell -. Una sorta di completamento in trenta articoli di quella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 che aveva lasciato “scoperti” i diritti all’identità nazionale e culturale, all’autodeterminazione, i diritti economici, il diritto alla cultura, all’ambiente e alle risorse comuni, i diritti delle minoranze.

Gianni Tognoni è il segretario generale del Tribunale permanente dei popoli, fondato nel 1979 come emanazione pratica della Carta di Algeri. Il TPP, come lo descrive il suo segretario, è “un’isola di resistenza, coscienza e collegamenti internazionali” che ha affrontato 42 sessioni (tutte le sentenze sono consultabili sul sito), l’ultima a Colombo in Sri Lanka, muovendosi dall’America Latina alle Val Susa. E che farà un bilancio a Roma, il 4 e il 5 luglio alla Camera dei deputati, in occasione di un convegno internazionale in occasione dell'anniversario della Carta.

Tognoni, come e perché nel luglio 1976 è nata la Carta di Algeri?
Il contesto storico entro il quale è maturata la Carta era caratterizzato da due componenti tra loro contraddittorie. Una era la fine del vecchio modello della colonizzazione e del prevalere dei movimenti di liberazione delle aree centrali, salvo l’apartheid che si sarebbe concluso vent'anni dopo; intorno al 1975, infatti, le ultime colonie formali del Portogallo terminavano la loro esistenza e finiva la guerra del Vietnam. Dall'altra parte, però, c’era la situazione assolutamente contraddittoria riassunta dai fatti del marzo 1976, quando l’Argentina concludeva con il suo colpo di Stato una nuova ricolonizzazione militare ed economica. Si riaprì un enorme laboratorio di moti coloniali - come evidenziato da tre sessioni del tribunale Russell sull'America Latina - fondato sulla violazione massiva dei diritti umani e dei popoli, praticamente inedita. La cosiddetta comunità internazionale fu spettatrice, a parte qualche importante esercizio di solidarietà. Bene, dinanzi a questa esperienza di forte contraddizione emerse il ruolo di un diritto internazionale nelle mani degli Stati quando questi non erano in grado di riconoscere in maniera formale ciò che stava succedendo. Basti pensare che nel 1978 si tenne il campionato del mondo in Argentina. Era necessario riprendere l’agenda lasciata consapevolmente aperta nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, in cui gli Stati, al di là di una menzione dei "Popoli" fatta solamente nel preambolo, erano i protagonisti assoluti e autonomi, liberi da qualsiasi limite esterno.

L’idea di Lelio Basso e di altri giuristi che all'epoca lavoravano in maniera attiva nella formulazione delle ultime convenzioni internazionali delle Nazioni Unite, fu quella di ricreare nuove categorie, ridando ai popoli presenti simbolicamente nel preambolo una loro visibilità e rappresentatività. La Carta di Algeri diventa un’area su cui sviluppare una resistenza alle nuove forme di colonialismo o repressione per dare - o ridare - ai popoli il ruolo di soggetti e non soltanto di "elettori" di governi. Allora non si parlava nemmeno di Corte penale internazionale (fondata il primo luglio 2002, ndr).

È a partire da quell'esigenza che è nato il Tribunale permanente dei popoli?

Sì, il Tribunale rispondeva alla convinzione che fosse veramente importante dare visibilità e legittimità - seppur attraverso uno strumento sussidiario, non dotato di potere immediato di intervento - alle lotte che in maniera diversa si dovevano condurre per evitare il riprodursi su base massiccia di fenomeni di colonizzazione.
Basso ripeteva nei suoi discorsi che la dichiarazione Algeri, legalmente, era soltanto un "foglio di carta", ma in qualche modo, come nella biografia di qualsiasi movimento di liberazione, era un iniziale strumento di lotta e di ricerca collaborativa. Era una svolta per il diritto internazionale.


Quali sono stati i “risultati” principali di questi quarant'anni di “vita” della Carta e dei suoi strumenti?
I bilanci storici sono sempre controversi. Dal punto di vista oggettivo, il diritto internazionale non ha fatto passi in avanti. La Corte penale internazionale è stato un prodotto molto tardivo e sostanzialmente quasi obbligato visto quello che era successo negli anni 90 con il genocidio in Rwanda, o le guerre nella ex Jugoslavia, o nel Golfo. Rimane il fatto che i Paesi "centrali" non ne hanno ratificato il trattato di istituzione, dichiarandosi così non vincolati a questa proposta di tribunale internazionale. Il TPP ha avuto dei ruoli sicuramente positivi dal punto di vista dell'utilizzo delle sue sentenze da parte di quelli che sono stati movimenti di liberazione. Penso al riconoscimento del Fronte Polisario dopo la sessione sul Sahara Occidentale del novembre 1979, all'attenzione per Timor Est - giugno 1981 - portata anche in sede di Nazioni Unite a seguito dell'invasione "tollerata" da parte dell'Indonesia, al caso di El Salvador (febbraio 1981), o delle Filippine, dove la sentenza sul caso "Filippine - Popolo Bangsa Moro" è stata riconosciuta come essenziale per creare una forma di opposizione vincente. Si è sollevata l’attenzione sull’Afghanistan, nel maggio 1981 e nel dicembre 1982, dopo l’illecita invasione dell'Unione sovietica e l'utilizzo di armi proibite, o sul genocidio armeno (aprile 1984), rimettendo all’ordine del giorno qualcosa che veniva, come adesso, accantonato per equilibri europei. Ricordo anche il lavoro sulla "non possibile impunità" rispetto ai crimini commessi in America Latina, che è stato alla base dell’operazione di memoria poi condotta in Argentina, Brasile, Uruguay e Cile.

Ecco, senza darsi illusioni, il ruolo del Tribunale è stato quello di trasferire strumenti pratici per lotte reali dei popoli - come ha fatto la sentenza sul Nicaragua dopo l'invasione degli Stati Uniti, ripresa anche dalla Corte internazionale dell’Aja -.


In più di un’occasione ha definito la Corte penale internazionale come un’occasione mancata.
Il suo grande limite è aver stralciato dalle proprie competenze il contrasto ai crimini economici, che invece sono sempre più al centro dell’attenzione del Tribunale. Qualificare oggi i diritti fondamentali dei popoli non come variabile dipendente dalle dinamiche economiche ma come elemento centrale di autodeterminazione - sto pensando alla sessione sulla Tav in Piemonte, dove l’esercizio della partecipazione popolare è stato piegato agli interessi di un’opera - è un qualcosa di cui non si discute più. E i trattati dominano sulle costituzioni.


Come sono cambiati i “popoli” cui guarda il Tribunale?

È mutato il termine. Prima, ai “popoli” si dava un’identità comunitaria, un gruppo che rivendicava diritti. Oggi i popoli sono trasversali dal punto di vista del rapporto con i poteri economici che ne condizionano (o negano) i diritti. In Europa, è il caso dei migranti, uno dei casi cui guarderemo da qui in avanti insieme alla finanza “illegittima”.

Potete scaricare qui la "Dichiarazione universale dei diritti dei popoli"
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