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Michele Nani
Capitali di ventura. La radicale distruttività delle scelte neoliberiste
19 Aprile 2011
Capitalismo oggi
Una lucida recensione dell’ultimo regalo di Piero Bevilacqua a chi vuole capire in che mondo viviamo e se si può cambiarlo. Il manifesto, 19 aprile 2011

Nel suo ultimo libro, Il grande saccheggio, lo storico Piero Bevilacqua traccia una diagnosi impietosa dei danni prodotti dal dominio capitalistico e suggerisce alcune proposte politiche immediate. Da parte sua Alain Deneault in Offshore evidenzia come i paradisi fiscali siano di fatto organismi sovrani, in cui il denaro «lavora» dentro gli stessi processi d'accumulazione del capitale su scala globale

Mentre l'economia globale passa da una crisi all'altra, la scienza economica ufficiale rifiuta di prendere coscienza delle radici dell'instabilità. Anche quando si vuole critica e, ad esempio, denuncia la speculazione finanziaria, non arriva a chiamare in causa gli squilibri nella distribuzione della ricchezza, determinati dalla logica intrinseca della produzione capitalistica e dal modello di accumulazione degli ultimi decenni. Nel tentativo di frenare la caduta dei profitti, le politiche neo-liberiste hanno sancito la ripresa del comando padronale sull'economia e hanno prodotto precarizzazione, disoccupazione di massa, allungamento della giornata lavorativa e compressione salariale; hanno inoltre intensificato, nel quadro di una concorrenza sempre più sfrenata, la corsa al deterioramento dell'ambiente.

Il capitalismo è entrato in una fase di «distruttività radicale»: questa la tesi centrale del Grande saccheggio (Laterza 2011, pp. XXXII-217, euro 16), l'ultimo saggio di Piero Bevilacqua, tra i più importanti storici italiani (curatore della Storia dell'agricoltura italiana, Marsilio 1989-1991, fondatore dell'Imes e della rivista «Meridiana»). L'autore, firma nota ai lettori di questo giornale, tenta un'analisi della situazione presente, globale e italiana, e la connette alla formulazione di proposte politiche immediate.

Macchine oligarchiche

Sul versante dell'analisi si insiste sull'attualità della lezione marxiana: le crisi sono elementi strutturali dell'economia capitalistica. Rispetto al quadro novecentesco siamo però in presenza di una novità storica: senza la resistenza del movimento operaio, il libero dominio del capitale regredisce alle forme di sfruttamento delle origini. Con esse non può ovviare alla crisi, ma solo riprodurla in forme ancor più laceranti, distruggendo ricchezza e polarizzando ulteriormente le società.

Lo spreco di risorse ne è lo specchio più eloquente: per citare solo due degli esempi ripresi nel volume, l'iperconsumo euro-americano colonizza l'immaginario infantile e genitoriale nel segno del disciplinamento consumistico (negli Stati Uniti la spesa trainata dai bambini è superiore all'enorme bilancio militare) e procede inesorabile sulla strada del degrado ambientale (cementificazione dei suoli, aumento del traffico e dell'inquinamento atmosferico, proliferazione di rifiuti). L'enorme capacità scientifica oggi disponibile per una diagnosi accurata dei danni prodotti dal dominio capitalistico è resa meno efficace dalla frammentazione del sapere, per la logica disciplinare imperante nelle università e, soprattutto, dall'incapacità delle dirigenze politiche di tenerne conto per prevenire esiti catastrofici. L'imprevidenza, per usare un eufemismo, della privatizzazione dell'acqua e dell'opzione nucleare offrono conferme evidenti a questi assunti.

Solo il conflitto di classe può porre dei limiti a una china pericolosa, sia sul piano delle lotte del lavoro che su quello politico. Arrivati a metà del libro, la diagnosi offerta da Bevilacqua sull'involuzione della sfera politica è tanto impietosa quanto era stata radicale la disamina del meccanismo capitalistico riassunta nelle pagine precedenti.

Macchine oligarchiche che riproducono un vero e proprio «ceto politico», i partiti odierni hanno conservato solo un flebile legame con progetti e programmi, e hanno così iniettato, giorno dopo giorno, dosi massicce di cinismo nella popolazione, sempre più consapevole della separatezza dei «politici» dalla vita quotidiana. Le «politiche della paura» producono ad arte sensazioni di insicurezza per conservare un legame - malato e intimamente autoritario - fra i rappresentanti e la base sociale che li sorregge con il voto. Separatezza e paura impediscono la formazione di risposte di classe alla crisi capitalistica e producono, con Benjamin, il regresso dei lavoratori a «massa» o «folla».

La logica del risentimento

L'Italia rappresenta un «caso esemplare» di (auto)cancellazione della sinistra politica e di diffusione nelle classi subalterne di culture del risentimento che favoriscono l'imbarbarimento politico (l'atteggiamento sulla guerra libica e sui profughi ne è solo la più recente manifestazione). Come negli anni Venti, l'Italia è ancora un laboratorio: «il capitale che si mangia la politica» ha trovato qui un'incarnazione perfetta nel fenomeno-Berlusconi. Perché? Bevilacqua recupera le pagine dei Quaderni gramsciani per ricordare al lettore la storica mancanza di egemonia delle classi dirigenti nazionali (varrebbe la pena ricordarlo, in tema di 150°), da cui la vocazione al particolarismo, alla violazione delle regole e all'eversione.

Si rifiuta qui l'invocazione di una pretesa «mutazione antropologica» degli italiani a spiegazione degli esiti politici prevalenti dal 1994. L'antropologia dell'Italia democristiana, ci ricorda l'autore, non era poi così diversa e, soprattutto, nella storia del Belpaese è esistita un'opposizione di massa di ben altra qualità etica e politica. Un'altra Italia tuttora viva, come dimostrano le mille resistenze, dalla denuncia della gestione dei rifiuti in Campania ai «no-tav» valsusini.

Come uscire dalla crisi e dalla politica che produce anti-politica? Innanzi tutto per Bevilacqua occorre opporre alla logica del risentimento quella della visibilità del conflitto di classe: i problemi sociali trovano le loro radici nella diseguaglianza e nello sfruttamento, che non sono fenomeni inevitabili e invarianti, ma sono legati a rapporti di forza che si formano nel cuore della produzione capitalistica. Il peggioramento delle condizioni materiali di vita, come i rischi di catastrofi ambientali, hanno precisi responsabili, poiché esiste una catena causale alle origini del loro prodursi. Riaffermarlo pubblicamente e costruire una politica fondata su questi assunti è la precondizione per invertire la rotta. Di questi tempi, ribadire esplicitamente che la politica si fonda sui processi sociali e deve tendere alla loro trasformazione fa del Grande saccheggio un libro prezioso.

Anche le forme della politica rappresentano però un problema. Le ragioni del cinismo dilagante in Italia, ma anche della difficile connessione e rappresentanza dei ricchi movimenti di base, stanno nella moderazione di quel che resta dei partiti di opposizione. La loro condotta quotidiana risponde alle stesse dinamiche del resto del «campo politico», nella distanza dai bisogni elementari della popolazione e nei contenuti troppo vicini a quelli degli avversari e dei gruppi economici dominanti.

Per di più, le esperienze di governo di «centro-sinistra» hanno aggravato la sfiducia popolare, poiché non hanno offerto miglioramenti palpabili, possibili solo nel quadro di una politica economica alternativa ai fondamenti delle linee neo-liberiste responsabili della distruzione sociale e ambientale. Bevilacqua sa bene che alla crisi di sistema si può rispondere solo con una radicale riduzione dell'orario, che redistribuisca il lavoro ed elimini la disoccupazione, fonte di miseria e di ricattabilità. Nell'immediato, tuttavia, oltre a sollecitare la ripresa dell'iniziativa da parte di un sindacato giudicato eccessivamente immobilista, ritiene più realistico immaginare un «piano del lavoro giovanile», incentrato sul recupero delle aree interne, nel segno dell'agricoltura, di piccole agro-manifatture, di artigianato teso al riciclo e alla riparazione, di politiche dei rifiuti, di energie alternative, di nuovi istituti di ricerca pubblica (sul modello delle francesi Maisons de science de l'homme).

Come imporlo alle classi dirigenti? Occorre prima di tutto restituire la politica ai cittadini, sgretolando la separatezza del ceto politico, attraverso il varo di provvedimenti specifici. Per citarne alcuni: un tetto alle spese elettorali, la riduzione di stipendi e privilegi parlamentari, il divieto del cumulo di cariche, il ritorno al sistema elettorale proporzionale. Giudicata impossibile l'auto-riforma del ceto politico, la proposta che chiude Il grande saccheggio è indirizzata in primo luogo ai movimenti: una nuova campagna referendaria (evidente è qui la lezione della recente mobilitazione per l'acqua e antinucleare), centrata sulla riforma della politica potrebbe configurare un salto di qualità nell'opposizione sociale, consentendo il superamento della frammentazione e la costruzione di uno sbocco politico. Vedremo nei prossimi mesi, prima e dopo il voto di giugno, se i destinatari raccoglieranno l'invito.

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