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Francesco Erbani
Caos restauri in Italia: "li fanno le imprese edili"
24 Giugno 2009
Beni culturali
La crisi della nostra tradizione del restauro: formazione bloccata e abbandono della “conservazione programmata” teorizzata da Giovanni Urbani. Su la Repubblica, 23 giugno 2009 (m.p.g.)

In Italia, che è il paese con il più cospicuo patrimonio artistico dell’Occidente, «il restauro è un lavoro che possono fare tutti, e che persino tutti possono dirigere, fatto salvo il principio di pagarlo il meno possibile: il che, ovviamente, lo priva di qualsiasi vero contenuto scientifico»: la drastica sentenza è di Bruno Zanardi, che insegna Tecnologie per la conservazione e il restauro all´Università di Urbino.

Il restauro è un settore fra i più delicati nel delicatissimo mondo dei beni culturali. Ma il blocco delle principali scuole di formazione (di cui ha parlato ieri su Repubblica Cinzia Dal Maso) rischia di far disperdere un patrimonio di saperi e di competenze pratiche di cui l’Italia può - oppure poteva, secondo alcuni - vantare meriti indiscussi. Lo stallo delle scuole dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Iscr) e dell’Opificio delle pietre dure aggrava il disordine, nonostante ieri il ministero, in una nota, abbia ascritto a sé e a questo governo il merito di aver avviato una nuova disciplina per il settore: in Italia si diventa restauratori nei modi più diversi, con poca pratica di laboratorio, con poche norme di riferimento e si affidano incarichi, anche molto importanti, a ditte che hanno più competenze edili che artistiche.

Il pericolo, segnala Antonio Forcellino, fra i migliori restauratori italiani (dal Mosè di Michelangelo alla facciata del Duomo di Siena e all’altare Piccolomini nello stesso Duomo), è che sparisca la "bottega", il luogo in cui «si condividono e si imparano quella serie di gesti veloci fatti con il batuffolo bagnato che tolgono lo sporco e che a un certo punto bisogna interrompere perché si è arrivati al colore». Questa tradizione, insiste Forcellino, è messa in pericolo «da una trasmissione fredda del sapere, prevalentemente teorica, accademica, impostata più dagli storici dell’arte che non dai restauratori veri e propri».

L’intero settore è in crisi. La stessa in cui si dibatte tutta la tutela in Italia. Le ultime assunzioni all´Iscr risalgono al 2000 e ormai il più giovane restauratore dell´Istituto ha oltre quarant´anni. Diminuiscono gli stanziamenti e molta parte dell´attività eccellente che vi si svolge è concentrata all´estero. Anche il prestigioso Opificio delle pietre dure versa in cattive acque. «Fino a qualche anno fa i restauratori dell´Opificio erano 160, ora superano di poco i 100», racconta Giorgio Bonsanti, direttore dal 1988 al 2000.

Secondo Forcellino, la crisi del restauro e della formazione dei restauratori in Italia inizia negli anni Ottanta, quando si moltiplicano i luoghi che realizzano corsi. «Chiunque vuole apre una sua scuola: è la deregulation assoluta», insiste Bonsanti. Negli anni Novanta si impara a diventare restauratori anche all’Università, dove però è prevalente la parte teorica. Inoltre, dice ancora Bonsanti, che ora insegna Storia del restauro, «i professori ordinari o comunque strutturati sono pochi, la gran parte sono docenti a contratto».

Il punto più critico è il modo in cui vengono assegnati gli incarichi: i restauri, se superano l’importo di 45 mila euro, devono essere affidati con una gara, per vincere la quale conta di più offrire il massimo ribasso che non la massima competenza. Spiega Carlo Giantomassi, che ha restaurato gli affreschi della Basilica di Assisi e della Cappella degli Scrovegni a Padova: «Ormai tutto è in mano alle imprese edili. Per carità, ce ne sono anche di ottime. Ma non è richiesto che a dirigere il lavoro sia un restauratore. Molte di loro fanno indifferentemente un tratto di autostrada e il restauro di una pieve romanica. Per ottenere la certificazione necessaria a una gara, la cosiddetta S.o.a., è più importante il numero delle betoniere, anziché un curriculum da restauratore». Come Giantomassi, anche Forcellino non partecipa più a gare pubbliche: nessuno di loro sarebbe in grado di vincerle. Giantomassi è in procinto di smettere, Forcellino ha dovuto mandare a casa due preziosi collaboratori.

Le soprintendenze hanno sempre meno soldi per i restauri. Dominano il campo i restauri sponsorizzati da aziende private, molti dei quali benemeriti. Ma le aziende vogliono un ritorno d’immagine, cercano i capolavori. Così può capitare che una singola opera venga restaurata anche più volte e anche quando non ce n’è necessità effettiva. Ma per Zanardi - che ha lavorato alla Colonna Traiana e alle sculture di Benedetto Antelami a Parma - il problema sta proprio nello statuto del restauro. «I restauratori italiani sono stati i migliori del mondo grazie a Cesare Brandi, che osò l’inosabile, cioè far entrare dentro una griglia teorica una materia fino a quel momento di natura pratica. Restaurare significa non intervenire sull’aspetto creativo, ma adottare tecniche che, in seguito, possano essere rimosse senza danneggiare l’opera. L’obiettivo è solo la conservazione dell’oggetto». Da Brandi in poi si è iniziato a viaggiare in discesa, aggiunge Zanardi. E si è cominciati a precipitare, insiste il professore, quando si accantonò il progetto che Giovanni Urbani, direttore per molti anni dell’Iscr, mise a punto nei primi anni Sessanta e che prevedeva «la conservazione programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente», un grande piano preventivo di salvaguardia dei beni culturali. Che, per esempio, avrebbe potuto funzionare nelle zone sismiche, consolidando e facendo quella manutenzione in grado di impedire i disastri dell’Irpinia o dell'Abruzzo.

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