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Simona Vinci
Camminando lungo la strada che taglia la vita
23 Aprile 2006
In giro per l'Italia
Piccolo viaggio a piedi nel paesaggio italiano dell’autrice di "Dei bambini non si sa niente". Da la Repubblica del 23 aprile 2006

Camminando lungo la strada che taglia la vita

Piccolo viaggio a piedi nel paesaggio italiano dell’autrice di "Dei bambini non si sa niente". Da la Repubblica del 23 aprile 2006

Qualche anno fa, una notte ho fatto un sogno, ho sognato una carta della provincia di Bologna, una cartina gigantesca, grande come un lenzuolo dispiegato, e io ci stavo seduta come si sta sopra un tappeto, c’era disegnata la linea rossa della Strada Provinciale 3, ribattezzata Trasversale di Pianura. È una strada che taglia in due, in senso orizzontale, un breve tratto di Emilia Romagna, doveva essere la via di collegamento tra Modena e Ravenna. In realtà, la Trasversale di Pianura propriamente detta è lunga cinquantadue chilometri e un po’ di metri: parte da San Giovanni in Persiceto e arriva a Medicina. Da un lato e dall’altro si innesta su altre due provinciali, in mezzo c’è il casello Interporto della Tangenziale che vomita, e risucchia, camion e automobili a getto continuo.

Quando ero una bambina, qui non c’era niente. La strada era fatta di polvere e sassi. Attorno, c’erano solo i campi e qualche casa colonica lontana, un’idea di mattoni, il fumo di un camino dritto nella luce della sera. Adesso, questi cinquantadue chilometri di asfalto ogni giorno si caricano addosso tonnellate di piastrelle, salami, cemento, liquidi altamente infiammabili, pendolari, stracchini, polli, maiali, rotoli di stoffa. E ancora. Ancora. Ancora. Nel sogno, puntavo il dito contro quella linea rossa, la seguivo facendo scorrere il polpastrello sulla carta e ripetevo ad alta voce i nomi dei paesi e delle località che toccava - il Postrino, Forcelli, Sala Bolognese, Colombarola, Pietroburgo (Pietroburgo?!), Funo, Bagnarola, Budrio, l’Olmo - ed ero felice, provavo una sensazione quasi elettrica, perché quel luogo io lo possedevo, lo conoscevo a memoria, lo avevo attraversato centinaia di volte, fin da quando ero una bambina: era di più che una strada, di più che un posto qualsiasi, era una geografia dell’anima, quel luogo ero io.

Dopo quel sogno, una mattina ho deciso: uscire di casa, chiudermi la porta alle spalle e dimenticare di possedere un qualunque mezzo di trasporto, niente automobile, niente moto, niente scooter, niente bicicletta, solo le gambe: gambe, colonna vertebrale, piedi, questa meravigliosa possibilità di muovermi nello spazio senza l’ausilio di nient’altro che questo, il mio corpo. E così sono cominciati i pellegrinaggi e la strada del sogno, e quella che ricordavo, si sono combinate e infine sovrapposte, dando vita a un’altra strada, quella reale. Giorno dopo giorno, viaggio dopo viaggio, ho raccolto indizi, catalogato i cambiamenti.

La domanda con la quale ho cominciato questo viaggio di pignola perlustrazione è la domanda apparentemente più banale di tutte: cos’è una strada? Una domanda talmente ovvia che anche un bambino delle elementari potrebbe rispondere senza la minima esitazione: una strada - come peraltro recita il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli - è «un’opera intesa a consentire, o a facilitare il transito in corrispondenza di una via di accesso o di comunicazione» / una strada è anche «un cammino, un itinerario». Una strada dunque è un passaggio. E a cosa serve? Per l’appunto a passarci, a transitarci, serve a collegare i posti, a spostarsi da un luogo all’altro, a mettere in comunicazione luoghi distanti, serve perché le persone possano muoversi con meno difficoltà nello spazio. E qui è arrivato il mio primo spaesamento. Un ciclista o un pedone che si mettano in viaggio su questa strada, lo fanno a proprio rischio e pericolo, come un gatto, una lepre, una formica o un riccio che decidano di attraversare la strada perché gli gira di attraversarla: questo muoversi con meno difficoltà infatti è ormai vero solo per i camion.

Durante le mie rischiose passeggiate incrocio i miei impavidi compagni di sventura: due filippine, una più giovane e una più vecchia, che ogni sera tornano a casa a piedi dopo la loro giornata di lavoro dal centro di Budrio verso le campagne, calpestando la linea bianca sul margine del fosso, qualche rara vecchietta in bici con il fazzoletto in testa e le sporte della spesa appese ai manubri, i ragazzini che tornano a casa dopo il pomeriggio in parrocchia, o al campo da calcio (pochissimi, questi ultimi). E i camion che passano a centotrenta all’ora ci fanno barcollare e tremare tutti quanti come figure ritagliate nella carta velina. Ci guardiamo negli occhi smarriti, e pensiamo la stessa cosa io credo, e cioè che una strada serve perché gli esseri umani si spostino da un luogo all’altro, che sia per lavoro, per necessità, o semplicemente per fare una passeggiata, e che dovrebbe essere evidente, naturale, ovvio, che una strada, ogni strada, fosse pensata perché ciascuno possa servirsene nel modo in cui desidera, o è costretto, a servirsene: se ho una macchina vado in macchina, se ho solo i piedi vado a piedi.

Invece ormai è come se un essere umano in movimento non potesse essere pensato altro che col culo piantato dentro un ammasso di ferro a motore. Punto. Per andare a camminare ci sono i percorsi pedonali, i percorsi trekking, come se appunto camminare fosse diventata una cosa assolutamente assurda per l’uomo contemporaneo, un’attività perduta nella notte dei tempi e dunque esotica e affascinante e vendibile come un "weekend in vigna" passato a pigiare l’uva nei tini. Riscopri un ritmo umano: vieni un weekend a camminare. E no che non ci vengo. Voglio camminare qui, a casa mia, e non posso farlo, voglio andare dal cartolaio a piedi, perché deve essere una sfida? Io abito in una strada sterrata che si chiama via Albareda (che in dialetto vuol dire alberata) e questa strada si immette direttamente sulla SP3, se non voglio uscire in macchina, o se non possiedo la macchina, lo faccio a mio rischio e pericolo.

Quando sopra una strada ci cammini ti viene naturale guardarti attorno, voltare la testa da una parte e dall’altra e vedere cosa c’è attorno a quella strada, qual è il paesaggio che attraversa e che tu stai attraversando. Cosa ci passa sopra? Merci di ogni tipo, organiche e inorganiche, gli scarti, i rifiuti, il tempo. Dunque puoi osservare, come scriveva Lawrence Durrell, «le lente concrezioni del tempo sul luogo». E così, camminando ho visto le case coloniche abbandonate, successivamente ristrutturate secondo moderni criteri di leziosità che poco hanno a che fare con l’originaria, spartana e un po’ rozza linearità, e portate a nuova vita, spesso dipinte in colori fosforescenti (forse perché i camion riescano a vederne la sagoma anche di notte, quando sfrecciano a centotrenta all’ora e fanno tremare i muri insieme ai proprietari e ai loro letti?). Ho visto i cantieri abbandonati: quante storie dietro quegli spazi «laconici» - come li definirebbe Gianni Celati - devastati, immobili, pencolanti, abbozzati. Cosa è successo? Perché se ne restano lì così, in quell’indeterminazione, per mesi, anni, fino a trasformarsi in un’ovvietà del paesaggio che piano piano la natura ricopre e mangia, riprendendo possesso di ciò che era suo fin dal principio? Ho visto i campi superstiti di barbabietola da zucchero, di mais e sorgo e patate. Qualche vivaio. I distributori di benzina. E poi la gente, sigillata nell’aria condizionata sulle automobili in corsa.

Negli ultimi due anni, il tracciato della SP3 è stato modificato e spostato al di fuori del centro urbano di Budrio - col suo corredo di espropri, battaglie, compromessi, ritardi - e per un lungo periodo, i lavori per le rotonde che ora connettono i due tronchi della SP3 circumnavigando il paese, sono apparsi in mezzo alla campagna come misteriosi cerchi nel grano. Immense aree circolari depilate e cementate senza nessun raggio che si dipartisse verso l’esterno a indicare una qualsiasi direzione verso il mondo, una funzionalità, e io le andavo a guardare in bicicletta, e insieme a me c’erano gli omarelli del paese, sporti sulle buche a guardare le frecce delle rotatorie con gli occhi sbarrati e il cervello confuso, tutti lì a cercare di immaginare come si sarebbe evoluta la questione.

Le strade, per capirle, andrebbero sempre anche viste dall’alto, anche se poi viste dall’alto fanno venire le vertigini, perché quando guardi le carte satellitari ti rendi conto che il mondo è diventato un reticolato di strade, che all’asfalto non c’è scampo, che questa smania di collegare tutto a tutto ci ha rinchiusi dentro una griglia quadrettata da battaglia navale che se da una parte rende il mondo una comoda ottimista spianata di asfalto attraversabile in lungo e il largo, in realtà lo riempie pure di confini, di reti, di limiti invalicabili, di barriere. Un mondo a misura di ruote e motori, non di piedi e corpi umani.

Un giorno, durante una delle mie perlustrazioni, sul muro di cemento di una fabbrica ho letto una scritta che diceva così: «CORRI CHE TI PASSA». Sono rimasta a fissarla per un po’, domandandomi chi l’avesse mai scritta, e cosa avesse nella testa uno che scriveva una cosa simile ai bordi di una strada del genere, se ci aveva davvero provato, lui, il bombolettatore misterioso, a correre sulla Sp3. Forse, una volta davvero su questa strada ci si poteva correre, doveva essere una strada che attraversava uno spazio tutto diverso: chilometri e chilometri di terra piatta e verde, in certi punti coperta di boschi e faggeti, e poi di campi ordinati, amorevolmente curati. Una terra viva. Adesso, le fabbriche abbandonate punteggiano la pianura con le loro ciminiere spente, le recinzioni di filo spinato corrose di ruggine, smangiate, in attesa di essere smantellate per far spazio a nuovi insediamenti industriali. Le fabbriche in attività che sputano lingue di fumo nel cielo. E lungo la strada, da una parte e dall’altra, insegne di trattorie per camionisti, cartelloni pubblicitari che reclamizzano ghiaia, lattonerie, vivai. Il fumo fetente dei gas di scarico che a bolle si diffonde in mezzo al paesaggio piatto, si disfa sulla superficie dei campi, contro le pareti delle case coloniche.

Sotto i miei occhi, oggi, c’è la strada. L’asfalto crepato e ruvido. Pieno di buchi, crateri, fenditure, mozziconi di sigaretta, preservativi, merde di cane rinsecchite, gatti spiaccicati, piume d’uccello, lattine accartocciate, frammenti di copertoni esplosi, chiodi, bulloni, pezzi di ferro arrugginito, carcasse di animali ormai irriconoscibili. Niente idea di progresso, collegamenti rapidi e sicuri, è una strada mortale, che attraversa piccoli centri - paesi grandi, medi, minuscoli, frazioni - e li deturpa, li soffoca, li ammutolisce. Con la lenta agonia dell’asfalto che si corrode sotto milioni di pneumatici, agonia di falene schiantate contro i parabrezza, di nutrie spappolate, civette, incidenti mortali. E io sono di nuovo qui, parte di questo movimento incessante, questa concrezione di tempo e storie e movimenti su un nastro d’asfalto, a cercare di immaginare come era il mondo prima, prima dell’ottimismo degli asfaltatori. Adesso, ci sono dei periodi che tutti questi chilometri di strada si popolano di striscioni rabbiosi e lenzuola graffitate appese ai muri degli edifici, che sventolano fuori dalle finestre come bandiere di guerra: via il traffico pesante dalla Trasversale. Siamo stanchi di respirare veleno. Stop ai camion. Siamo noi, che cerchiamo di riprenderci ciò che dovrebbe essere nostro: le strade, i passaggi, le vie di collegamento e transito, lo spazio e i luoghi e il tempo.

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